Dalla guerra preventiva al Nobel preventivo. L’America ha cambiato rotta. Nel giro di un anno ha defenestrato il presidente guerrafondaio ed ha eletto l’oratore incisivo che vince il premio più ambito dagli statisti.
Ma la realtà è meno rassicurante di quanto sembra. Di segni davvero tangibili Obama non ne ha lasciati, né in patria né in politica estera. Ecco perché il premio assegnato dall’Accademia Norvegese sembra, nella migliore delle ipotesi, in anticipo sui tempi.
Il presidente stesso l’ha ammesso: “Mi premiano per quello che ho detto, non per quello che ho fatto ”.
I primi dieci mesi dell’era Obama verranno ricordati solo per sfavillanti proclami. Da Praga, dove ha prospettato un mondo libero dalle armi atomiche, al Cairo, da cui ha teso la mano al mondo islamico, Obama ha solo tracciato scenari ideali e, nell’accezione più alta, populisti: doveva riconquistare la fiducia del popolo europeo, tradito dall’unilateralismo arrogante di Bush Jr, e riallacciare i fili lacerati con il Medio Oriente, offeso dal filo-ebraismo americano. Ha finito solo per plagiare i membri dell’accademia Norvegese, più affascinati dalla cassa di risonanza mediatica che dai risultati conquistati.
I traguardi interlocutori sbiadiscono di fronte ai grandi temi, lasciati in eredità dal vecchio inquilino della Casa Bianca.
L’Afganistan è una carneficina senza via d’uscita, l’Iraq è un protettorato americano armato, il carcere di Guantanamo detiene ancora prigionieri, l’Iran continua a fare il muso duro sul nucleare.
Non è detto che il riconoscimento di oggi giovi ad Obama più di quanto gli noccia. Forse ne avrebbe fatto a meno. Con quale spirito, ad esempio, il Presidente raddoppierà il contingente americano nella terra dei Talebani tra pochi mesi? Con quello del “commander in chief” o con quello del pluripremiato paladino del disarmo globale? Per questo Obama chiede umilmente (“humbly”) a tutto il mondo di non tributargli le responsabilità (e gli oneri) di un supereroe e, sapendo di tradire in futuro le aspettative di molti antimilitaristi, si dichiara “non ancora all’altezza del riconoscimento”.
Ha ragione.
Paradossalmente il Nobel di quest’anno l’avrebbe meritato la sua Nazione, così decisa ad urlare al mondo lo sdegno per il protagonismo violento di Bush.
“Hope” è lo slogan sul celebre poster di Obama. Ed è anche la motivazione più efficace del Premio.
venerdì 9 ottobre 2009
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