domenica 30 agosto 2015

Chicago e il corso degli eventi

Tre generazioni di abitanti di Chicago mi odieranno, le prossime trenta non sapranno come sdebitarsi Così soleva dire Aaron Montgomery Ward, un industriale di successo a cavallo tra l’Otto e il Novecento, grande filantropo e attivista illuminato, con la passione spinta per l’urbanistica. E’ passato alla storia come il watch dog del lakefront di Chicago, che molti imprenditori avevano intenzione di dare in pasto alla lottizzazione e all’edificazione spinta. Se oggi è possibile passeggiare per Grant Park e per gli altri spazi verdi accanto al lago Michigan, è grazie ad un’ordinanza dei primi del Novecento, il Burnham Plan, ispirato proprio dalle battaglie legali intraprese da Ward. L’enorme corridoio verde che corre da South Chicago fino a Belmont passando per downtown era però, all’inizio del secolo scorso, l’esito casuale della più grande tragedia che la città ricordi. Nel 1871 un incendio divampò dalla scuola di apprendistato dei pompieri di Chicago, distante non più di cinquecento metri in linea d’aria da dove ora sorge la Sears Tower, e presto si estese a tutta la città, i cui palazzi erano in gran parte in legno. Più dirompente del celebre rogo di Londra di due secoli prima, l’incendio provocò la morte di tremila persone e lo sfollamento di centomila abitanti, pari a circa un terzo dei residenti. Le autorità decisero di prevenire lo scoppio di epidemie riversando verso il lago le migliaia di tonnellate dei resti della vecchi Chicago di legno. Il Millennium Park e i suoi giardini vicini sorgono sulle scorie di quella tragedia, da cui la città si riprese praticamente subito e con successo. Pochi anni dopo, nel 1893, la città organizzò l’esposizione internazionale con il chiaro intento di attrarre i migliori esponenti dell’architettura mondiale per rifondare la città nel nome dell bellezza e dell’innovazione. La Chicago di inizio Novecento era un laboratorio architettonico all’avanguardia, il primo a lanciare i palazzi con più di duecento piani, immediatamente copiati a New York, e per lungo tempo detentore dei record di altezza degli stessi, prima con l’Hancock e poi con la Sears Tower. Dal minimalismo di estrazione europea, al postmodernismo, questa città è uno spaccato dell’architettura recente, il condensato degli stili e delle sperimentazioni di un secolo. La storia di Chicago e dell’omonimo fiume che l’attraversa è tormentata, e ancora lontana da una piena riconciliazione. Il Chicago River è la ragione stessa dell’esistenza della città, un perfetto collegamento per gli esploratori che dal lago Michigan si immettevano nel Mississippi, fin dal Settecento. Proprio sulle rive del fiume, in prossimità della foce, i conquistatori trovarono abbondanti quantità di vegetali simili a cipolle, che nella lingua dei nativi erano chiamate chi-ca-goo, da cui deriva il nome della città. Dal radicamento delle prime industrie, nella seconda metà dell’Ottocento fino a non meno di trenta anni fa, i canali del Chicago River sono state la destinazione principale dei liquami di industrie e condomini circostanti, fino a che l’acqua del lago Michigan si è trasformata in una seria insidia per la salute pubblica. L’etica delle amministrazioni cittadine non ha sempre eguagliato i vertici di Montgomery Ward, e non solo per essere scesa spesso a compromessi con i boss mafiosi à la Al Capone. Nel secondo dopoguerra, per risolvere maldestramente il problema, il City Council avviò i lavori per invertire il corso del Chicago River che da affluente del lago si sarebbe trasformato in effluente e avrebbe scaricato nel Mississippi il veleno raccolto dalla metropoli dell’Illinois. Un complicato sistema di chiuse fu elaborato per tenere il livello del fiume al di sotto di quello del grande lago e permettere ai veleni raccolti nel bacino di andare a svernare alle miti latitudini del Golfo del Messico. Il progetto fu a lungo osteggiato dalla Corte Federale e restò bloccato per anni finché i Chicagoans forzarono la mano e lasciarono che il corso degli eventi – e delle acque – cambiassero per sempre. Un ignaro dipendente della società di gestione delle chiuse ricevette l’ordine di azionare il congegno idraulico – in questi casi è inutile chiedersi da parte di chi. Detto, fatto. Il cambio del corso dell’acqua era una operazione irreversibile, ai tempi. Se nei prossimi decenni l’amministrazione di Chicago ripristinerà l’antico corso è ancora presto per dirlo, ma alcuni studi di fattibilità sono già stati compiuti e hanno alimentato speranze. Oggi, molti palazzi di vetro e acciaio si specchiano nelle acque non ancora del tutto immacolate del Chicago River: alcuni ne imitano esplicitamente il colore, altri si ispirano alle sue forme sinuose. Da poco di più di quattro anni svetta un nuovo grattacielo a pochi passi dal lago e dal Magnificent Mile. È un gigante di trecento metri di vetro celeste sorretto da piloni che entrano fino nelle viscere del fiume e oltre. Sulla fiancata campeggia la scritta presuntuosa TRUMP, a rimarcare il carattere prevaricatore del personaggio che l’ha voluta, anche a dispetto delle rigide ordinanze del City Council. La Chicago del futuro è sospesa tra due destini antitetici. Da un lato, ambisce a diventare un epicentro della urbanistica sostenibile, che investe centinaia di milioni di dollari per bonificare le acque dei suoi fiumi e costruisce chilometri di piattaforme pedonali sulle loro rive. Dall’altro, continua a concedere ai costruttori il permesso di strappare alle acque nuova terra edificabile, in una corsa verso il cielo rinvigoritasi dopo anni di cauta ritirata. Chicago è già oggi un ricettacolo di opposti inconciliabili, dove decine di persone senzatetto alloggiano in tende da campeggio sulle rive dei canali, a pochi passi dalla Sears Tower e dai complessi modernisti. Chicago aspetta con fiducia l’arrivo di un altro illuminato che scontenti le prossime tre generazioni, per il bene delle successive trenta.

venerdì 28 agosto 2015

I canyon della pianura

Non riesco a immaginare come fosse risalire a bordo di una barca e con scarso equipaggiamento il fiume Mississippi, nel 1673. Due francesi, Louis Jolliet e Jacques Marquette furono i primi europei a farlo e a documentarlo. Al loro ritorno, navigarono sul fiume Illinois che trovarono un comodo accesso al lago Michigan, e si imbatterono in un meraviglioso prodigio naturale, lo sperone di roccia poi ribattezzato Starved Rock. Attorno a questo promontorio coperto di alberi, a poco meno di due ore da Chicago, sorge il parco che ho visitato oggi. Ci sono varie leggende locali su come Starved Rock abbia preso il nome. La più popolare risale a circa tre secoli fa, quando la regione era periodicamente contesa da una varietà di tribù native, costrette a riparare verso ovest dall'espansione degli insediamenti europei. Nel XVIII secolo non c’era un fronte comune dei nativi contro l’invasione degli Occidentali, bensì una lotta intestina che finì per fiaccare ancora più rapidamente la resistenza dei locali. L’inizio di tutto è l’assassinio del leader degli indiani Ottawa, Pontiac, per opera dei rivali della confederazione dell’Illinois. Secondo la leggenda, gli Ottawa, insieme ai loro alleati Potawatomi, vendicarono la morte di Pontiac attaccando una manipolo di Illiniwek lungo il fiume Illinois. Gli Illiniwek salirono su una collina rocciosa per cercare rifugio, ma gli inseguitori la assediarono fino a quando i membri della tribù morirono di fame. Di lì a poco, i conquistatori occidentali avrebbero liquidato, i reduci degli Illiniwek, e i loro rivali Ottawa e Potawatomi, che sulla Starved Rock avevano colto una effimera vittoria fratricida. Oggi, i nomi delle tribù dei nativi danno il nome agli spettacolari canyon che per circa cinque miglia cingono le rive del fiume Illinois, tra foreste di faggi e querce e cascate d’acqua, prosciugate dalla stagione.

martedì 25 agosto 2015

I ragazzi del Loop

Non vedevo altro che alberi nebbiosi e il pendio cupo e selvaggio che si alzava verso il cielo. "Che cazzo ci faccio qui su?" imprecai, invocando Chicago. "Sono sicuro che si stanno divertendo tutti come matti, in questo momento. Ecco cosa stanno facendo, e io non ci sono e non so nemmeno quando ci arriverò"
Sono in una cabina d'aereo, accecato dagli ultimi bagliori del giorno riflessi sul lago Michigan. Il volo intercontinentale mi ha lasciato le ultime energie per prendere coscienza che sotto di me non ci sono più sterminati ammassi di vapore, bensì lo specchio d'acqua dolce più grande d'America, solcato dal vento sferzante, che corre a perdita d'occhio senza congiungersi mai con la terra ferma. Cerco freneticamente sul cellulare delle canzoni che suggellino questo momento di inaspettata pienezza. Metto in fila la leggerezza caleidoscopica di Sufjan Stevens e la malinconia alticcia dei Wilco. La memoria plana liberamente sui ricordi alla voce "Chicago" : il ghigno compiaciuto di Air Mike che si avventa sul canestro; lo sguardo spiritato di Billy Corgan che vende il sogno di un viaggio sulla luna; l'interminabile discesa della carrozzina tra pallottole impazzite al suon di carillon alla Union Station; le scorribande travolgenti dei Blues Brothers impassibili su e giù sulle avenue a bordo della bluesmobile. Il treno che dall'aeroporto di O'Hare si dirige verso il centro, si allontana dal tramonto. Fuori dal vagone, si dispiega la nuova periferia "gentrificata", disseminata di open space e shopping mall, scale di emergenza arrugginite addossate alle casette di mattoni e graffiti scoloriti, sotto una processione senza posa di aerei. Quando il treno scende sotto terra, il ritmo cadenzato delle rotaie si unisce alla musica rap e dub sparata dagli auricolari dei passeggeri. È una anti-melodia urbana. Gli anni del funk e del blues devono essere sepolti per sempre, penso. Riemergo alla luce dalla stazione di Jackson Blue, nel Loop. Intorno a me solo pareti verticali di acciaio e vetro che rifiutano insolentemente di assecondare il tenue arancione con tinte di lilla del crepuscolo. Dietro di me, austera, la Sears Tower.
I ragazzi del Loop suonavano, ma con stanchezza, perché il bop era a metà strada fra il periodo del Charlie Parker di Ornithology e quello di Miles Davis.
Ora, nessun musicista osa rompere la nuova sinfonia urbana. Intorno a me ci sono solo turisti decisi a ignorare i consigli serali della Lonely Planet, e tassisti che abbordano qualsiasi persona munita di valigia. Rifletto, un po' cinicamente che Uber ci ha trasformati in hooker ai loro occhi, purtroppo. Prima che un groppo mi afferri la gola, come ogni volta che sono in un posto nuovo e vagamente minaccioso, arriva sul cellulare il messaggio di Simone che aspettavo : "Sono lì tra un minuto". E il cuore si spalanca fiducioso e torna a credere che questa sia davvero l'idea di città che conservavo nella memoria. Ho un amico nel centro di Chicago che mi abbraccia e mi aiuta a caricare i bagagli nel baule, mi chiede se sono stanco per il viaggio "Certo che lo sono" penso, "ma chi se ne importa, ora ho solo voglia di riprendere il discorso su quel tuo viaggio nel Canyon di qualche mese fa, su dove sia quel parco dove hai promesso di portarmi la settimana prossima. A proposito... come sta Daniela? Ti andrebbe di vedere con me la prossima partita della Juve? Non riuscirò mai ad esaurire tutte le domande e le curiosità in questa serata" penso, mentre cerco di arrestare questo soliloquio torrenziale. Intanto Simone mi parla con la naturalezza di chi mi ha salutato l'ultima volta solo una settimana fa. Invece abbiamo passato insieme poco più di dieci giorni negli ultimi quattro anni. Credo che le prossime due settimane mi riserveranno ancora sorprese come questa. È sera ormai. Clio, la gatta di Simone e Daniela, si è sistemata al mio fianco sul letto, col gusto di esplorare le carezze del sul nuovo coinquilino. Farò riposare gli occhi provati dal fuso con Parker, pensando a quei ragazzi del Loop che avevano sedotto Kerouac. Forse non arriverò neanche al secondo minuto di Ornithology.
E mentre me ne stavo là seduto ad ascoltare quella musica della notte che è ormai il bop per tutti noi, pensavo ai miei amici sparsi per il Paese e come fossero in realtà tutti nello stesso grande cortile ad agitarsi frenetici e convulsi.

giovedì 20 agosto 2015

Fins ara, Barna

Reckoner è tornato! A distanza di cinque anni dall’ultimo post, il blog riapre i battenti per tre settimane per un’edizione speciale dagli Stati Uniti. Questa volta non troverete coccodrilli pietosi di personaggi famosi, cronache con ambizioni sociologiche in terra straniera, o omaggi a scrittori con l’ispirazione ormai in declino. Aspettatevi solo appunti da un viaggio che, ispirato da ragioni professionali, si collocherà a metà strada tra un inter-rail fuori tempo massimo, data la mia età non più verde, e un (poco) nostalgico homecoming a casa di gente a cui voglio bene. Sono ormai pronto per trascorrere le prossime tredici ore in aereo, ospite di una compagnia dal nome vagamente erotico. Ci sentiamo a Chicago, prima tappa di questo viaggio. Fins ara Barna. Fins ara a tothom.

venerdì 5 marzo 2010

Aggiungi tre posti a tavola

Per quanto luccicanti, quelle strisce rosse di peperone sulla fetta di pane raffermo guarnito col burro “Tesco” mi stavano facendo passare l'appetito. “Rebecca, ma come fai a farti piacere quella schifezza?”
E siccome anche Nathan la stava imitando scongelando una pizza con fette di ananas, ho deciso di salvarli dal disastro culinario.
“Vi va un po’ di pasta?”. Non dovevo nemmeno aspettare la risposta. So quanto ci tengono ai fusilli dopo averli assaporati più di una volta.
Il mese scorso ho iniziato a cucinare per conoscere e farmi conoscere, e perché no, anche per farmi benvolere. Maccheroni, spaghettata, scarpetta. I miei coinquilini hanno imparato in italiano prima il gergo culinario che a dire “Come stai”. Questione di gusti.
Daniel, vegetariano, ha mangiato i miei spaghetti alla carbonara senza battere ciglio e Nathan non si è accorto che nei fusilli al bacon c’erano anche le zucchine che odia tanto.
Ci siamo gettati sui piatti in vorace silenzio. Lo stridìo soddisfatto delle forchette è valso più di ogni ringraziamento

mercoledì 24 febbraio 2010

Sogni proibiti. Primo giorno a Londra

Londra è rimasta un sogno proibito per cinque anni. All’indomani degli attentati alla metro del 2005, la mia scuola di lingua aveva soppresso la gita domenicale nella capitale, preferendo il sonno tranquillo dei nostri genitori ai miei sogni di ragazzino provinciale che al massimo era espatriato a Lugano.
L’occasione per partire me l’ha suggerita Rebecca, la mia coinquilina americana, sempre più a suo agio ad organizzare viaggi per i suoi amici in trasferta in Europa.
Stavolta era il turno di Nick, brillante studente di Political Science a Chicago e Kate, futura psicologa.
Tutti e tre vanno a trovare la loro amica Amy, che studia alla Queen Mary. Mai avevo incontrato ragazzi americani così attratti dal vecchio continente, che non si limitano a spalancare il sorrisone ed evocare gli stereotipi (“Arte, pasta, vita tranquilla … ”) quando gli parli di noi europei.
Infatti in treno Nick mi intrattiene entusiasta su Bentham, Hume e Hobbes. Kate però storce il naso e lo interrompe con un bacio al silenziatore sulla bocca: “Ma la vuoi smettere di fare il secchione? Piuttosto, Alessandro, dimmi in quale stato è Kansas City”. Ecco come in pochi secondi Kate è riuscita a distruggere la mia presunta autorevolezza in geografia e soprattutto a sciogliere il dubbio sulla sua situazione amorosa.
Ma come potete immaginare la delusione più grande non è stata sapere che KC sia in Missouri…
Arrivati a Londra, Amy ha un gran voglia di visitare i magazzini Harrod's. I saldi sono nel clou e il richiamo dei cosmetici francesi è irresistibile.
Così accade che mia prima tappa londinese sia l’impero di Al-Fayed. Per tirarmi su penso a quei turisti che appena atterrano a Milano, vanno a visitare via Montenapoleone.
Il department store è … faraonico, non solo per il blasone dei marchi in esposizione ma anche per lo sfarzo degli allestimenti che richiamano l’Antico Egitto. È quasi stupefacente che Al-Fayed abbia voluto la sua statua abbigliata con un completo borghese invece con i paramenti di Tutankhamon.
Il memoriale di Dodi e Diana eretto al piano terra è così sobrio da sembrare dissonante con le iperboli di Dior e Yves Sant-Laurant. Molti turisti, soprattutto Italiani, lasciano le fastidiose monetine da 2 pence di rame per onorare la memoria della “principessa del popolo” e perché no, svuotare anche il portamonete dopo la carta di credito.
Io aspetto il giorno successivo per dare il colpo di grazia alla mia. E levarmi qualche altro sogno proibito.

lunedì 22 febbraio 2010

Festa ovale

Nathan me l’aveva garantito “Qui è l’evento dell’anno”.
È il “Sei Nazioni” di rugby. E non stento a crederlo visto che in questi giorni la divisa bianca con la rosa dei Lancaster surclassa anche la felpa griffata dell’università. Nemmeno la “Pretty Green” di Noel ci riesce…
E cosi’ domenica pomeriggio mi hanno invitato come ospite nella tana del tifo inglese, lo SU Bar.
Nathan e i suoi amici mi guardano come se stessero contemplando lo Sheppard pie della loro mamma. Già pregustano la vittoria, galvanizzati dalle quote dei bookmakers e dalla tradizione favorevole. La loro squadra non ha mai perso contro gli Italiani, che hanno raccattato nel 6 Nazioni una decina di anni fa per avere la certezza di 2 punti facili facili gia’ all’inizio del torneo.
Sapete, non e’ bello essere la vittima sacrificale al banchetto degli Inglesi, che di questi tempi sono cosi’ ringalluzziti che pensano, a ragione, di poterci battere in scioltezza anche nel calcio.
Qui e’ molto peggio. Non c’è nemmeno un Fabio Capello a cui affidare le speranze di riscatto, ma solo quindici ragazzi con la maglia azzurra, molti dei quali nati nell’altro emisfero.
I nostri ragazzotti ci mettono la grinta, sin dalla prima nota dell’inno, al punto che mi convincono a cantare, sempre più convinto, l’inno d’Italia in faccia agli sberleffi dei padroni di casa.
Gli Inglesi accolgono la loro nazionale in piedi e cantano l’inno. Come nella migliore tradizione italiana vanno avanti di 4 battute già dopo la prima strofa al punto che iniziano ad applaudire e incoraggiare i loro beniamini ben prima che i giocatori abbiano finito di intonare “God Save the Queen”.
Nel locale di solito riservano un tavolo a scozzesi e gallesi, che pur in netta minoranza, godono del rispetto almeno dell’oste. Ma loro se le sono date di santa ragione il giorno prima ed oggi è rimasto solo Harnold, che si gusta il match sorseggiando una Brain’s in ossequio alle sue origini gallesi.
Sul versante della partita, gli Inglesi hanno meno occasioni del previsto per intonare la marcetta gospel (importata dall’America…) “Sweet Chariot”. Il match è spigoloso, gli Italiani arginano l’attacco asfittico dei rivali con mischie rocciose. Ogni tanto qualche amico di Nathan si complimenta come se fossi la mamma dei fratelli Bergamasco: “Siete meglio anno dopo anno”. Nella migliore tradizione dei vini italiani. Sul calcio piazzato del biondo fratellone siamo 14-12 per gli ospiti. La partita sembra quasi riaperta. Esaltato dal possibile pareggio rompo il silenzio scaramantico che mi sono imposto dall’inizio della partita. Inizio a fantasticare su una possibile caduta degli Dei, come quella degli inventori del gioco del pallone ad Highbury, sommersi dagli Italiani campioni del mondo di Pozzo.
Ma ahime’ Castrogiovanni non e’ Meazza, e quel che e’ peggio, Wilkinson e’ il Messi del rugby. Piazza un drop da manuale e manda i miei amici inglesi a casa contenti. Non prima di avermi stretto la mano. Nostalgia del calcio non ne ho proprio.