lunedì 28 settembre 2009

Nocche di rabbia

Roberto Saviano ha da poco compiuto 30 anni e da 3 vive sotto scorta. La sua unica fonte di libertà ormai sono le parole, distillate nelle appassionanti interviste che di tanto in tanto concede. Venerdì l’ultima, all’Era Glaciale.
In ogni trasmissione, Saviano subisce lo stillicidio dei filmati ingiuriosi degli abitanti di Casal di Principe. Si prende gli insulti e le calunnie con una serafica quiete dettata più dall’abitudine che dalla misericordia. Da pochi giorni ha scoperto che l'ostracismo nei suoi confronti si é esteso anche al di là dei territori sventrati di Gomorra. All’indomani della strage in Afghanistan lo scrittore sotto protezione ricorda che "i 6 caduti di Kabul sono tutti ragazzi meridionali" e invita tutti gli Italiani a riconoscere il sacrificio di ragazzi coraggiosi che hanno pagato con la vita la scelta di non finire nell'altro esercito, quello della criminalità.
Dal Nord si leva però un muro di indifferenza alla morte dei giovani soldati, sorretto da grevi ragionamenti come “Erano ben pagati, se la son cercata”, “Noi abbiamo il lavoro e loro la camorra”.
Due anni fa un Biagi sibillino gli aveva preannunciato il livore nutrito da molti suoi connazionali: “Hai fatto qualcosa che ti faranno pagare”. L’Italia non sopporta che qualcuno le sveli la sua coscienza degradata, indifferente al dolore ed assuefatta ad ogni tragedia.
Saviano affonda il coltello nella carne putrefatta, fa riemergere i rifiuti della memoria pubblica seppelliti dall'oblio. Istiga a prender parte, a rifuggire la neutralità. O sei contro o sei con il Sistema.
Per lui un assassinio truculento non è uno sporco rituale di sopravvivenza tra iene dello stesso clan. E’ il risvolto microscopico dell’universale tragedia umana. Se annusi bene, la coca spacciata tra le vele di Scampia ti conduce nei capannoni operosi e profittevoli della Brianza. Il sangue delle mattanze al Sud si trasforma in denaro pulito per le fabbriche del Nord.
Saviano è un uomo ossessionato da una lodevole ambizione: veicolare il senso tragico degli eventi attraverso la “parola scritta” e la sua immagine.
Dà dignità letteraria alle cronache locali e alle sentenze della magistratura, terreno per addetti ai lavori e giornalisti di provincia, come Manzoni ricopriva di significato universale le grida dei Governatori spagnoli. Cerca deliberatamente l'esposizione mediatica per fare della sua faccia un monito contro il disimpegno.
I suoi ultimi tre anni di passione sono scanditi da una domanda impudica: ne é valsa la pena?
Se all’inizio della sua avventura civile rispondeva in modo disincantato ed ottimista (“Certo che sì, credo che i boss abbiano altro a cui pensare”), man mano che la valanga di coscienze trafitte dal suo best seller montava e le condanne a morte pronunciate dai boss riempivano i dossier dei Servizi, le risposte si facevano più evasive. Fino alla resa: “Quel libro mi ha distrutto la vita”.
Ora Saviano vive le apparizioni televisive con lo spirito dell’evaso. “Sono le uniche occasioni in cui posso fare qualcosa di diverso e respirare un po’ di libertà”. Passa le giornate ordinarie sotto la cappa della scorta, immaginando i mille modi architettati dai suoi nemici per toglierlo di mezzo.
Nonostante abbia vissuto dieci vite in una, densa di riconoscimenti e attenzioni, è regredito nell'animo, come se la rabbia che lo spingeva a “scrivere con le nocche” sulla tastiera, ora lo accompagnasse in tutti gesti, dal tormentarsi gli anelli sulle falangi allo sfregarsi la testa lucida.
La rabbia come compagna di vita. Questo è il prezzo che ha pagato per aver anteposto all'ambizione di una vita serena l'utopia di un'ideale universale.
Diceva Edmond Burke: “Perché il male trionfi basta che i brav'uomini non facciano niente”. Credo che Roberto Saviano si sia caricato l’opera di molti di loro.

mercoledì 16 settembre 2009

Ricordi su stampa economica

Mi hanno chiesto di preparare la farewell card per gli amici in partenza e ho accettato volentieri. Come posso negarmi di gustare i ricordi in piena solitudine?
Dopo il lavoro, per un’ora la scrivania si trasforma nel banco di ArtAttack. Tutto è al suo posto, le forbici, la colla, due cartoncini colorati. Uno blu per l'amico discreto, l’altro arancio, per l’amica nomade.
Mentre ritaglio le foto, i nostri occhi affusolati per la gioia, freschi di stampa economica, riprendono vita. E i brividi si attaccano ai ricordi come le mani ai fogli impregnati di colla.
Da domani molte emozioni finiranno in letargo. Che il risveglio sia più dolce dell’assopimento.

martedì 15 settembre 2009

Prova d'amore

Ora capisco perché al tramonto centinaia di amatori scorrazzano per le strade bianche dei parchi. Si preparano per la Business Run, la corsa più amata dai viennesi brizzolati. Gli organizzatori ci sanno fare: intorno all’Hernst Hopper Stadion, teatro di finali di Champions League ed Europei, hanno installato due palchi e qualche telecamera panoramica, due archi di trionfo e decine di stand, con la guarnizione delle cheerleader e del Linus d’Austria. Bastano questi ingredienti a trasformare una gara di quattro chilometri in un evento da trentamila presenze. “E’ come se qua ci fosse tutto il mio paese” mi dice entusiasta Giorgio, mentre fa stretching e mi mostra orgoglioso il numero 285C sulla tuta gialla. La A e la B le hanno le sue compagne di team, Martina e Suman che gareggia con l’ambizione di stare sotto i trenta minuti, e abbracciare suo marito Michael alla fine della fatica. Mezz’ora dopo, o giù di lì, Giorgio è già all’arrivo ad addentare il meritato bratwurst, mentre Suman passa sotto lo striscione d’arrivo seguita dallo sguardo affettuoso di Michael che, come in una prova d’amore, potrà sussurrarle: “Ti ho riconosciuta tra migliaia di persone”.

venerdì 11 settembre 2009

mercoledì 9 settembre 2009

Cappellino rosso, maglia nera, bandiera bianca

Fa quasi tenerezza Badoer mentre racconta le sue disavventure in sala stampa, a Spa, dopo la seconda gara conclusa da ultimo, a trenta secondi dal penultimo, il carneade spagnolo Jaime Alguersuari. Gli chiedono se si senta ormai messo da parte dalla scuderia, se provi imbarazzo per essere l’unico pilota Ferrari arrivato ultimo per due volte di fila, se creda ancora di conservare il volante anche a Monza, proprio ora che Fisichella è sul podio a celebrare un inaspettato secondo posto.
Badoer non ha il piede temerario in curva ma conosce una dote che fuori dal tracciato lo eleva sul gradino piú alto: la dignità. Si offre alle telecamere senza accampare scuse, ribatte colpo su colpo alle velenose insinuazioni dichiarando progressi cronometrici a cui però nessuno crede, infine ammette i propri limiti celando gli occhi rugiadosi per lo sconforto sotto il cappellino rosso di vergogna.
Lo “Schumacher dei collaudatori” ha alzato bandiera bianca. L’anno prossimo tornerà l’uomo ombra del jet set motoristico, il protagonista dei giorni feriali a Fiorano, la balia che alleva le giovani puledre imbizzarrite del cavallino.
Sono passati poco più di quindici anni da quando la Ferrari licenziò Ivan Capelli, sì proprio il competente commentatore televisivo, che evidentemente ha più confidenza con le parole che con le chicane. E di piloti che fanno venire i brividi al solo pensiero di portarti al supermercato sono piene le cronache sportive: dal lussemburghese Carel Godin de Beaufort degli anni ’60 a Kazuki Nakajima dei nostri giorni.
Ma Badoer ha qualcosa in più di tutti questi: vent'anni di militanza mediocre in F1, insomma le stimmate dell’ultimo. Dopo gli esordi in scuderie minori e cinquanta gran premi passati a guardare i tubi di scappamento degli avversari, senza raggranellare nemmeno un punto, passa alla miglior vita del collaudatore: 12 anni a macinare fino a 20 mila chilometri l’anno sulla piste di Fiorano per testare alettoni ed accompagnare i magnati della finanza a bordo delle auto extra lusso.
Tra qualche anno l’epiteto di “Badoer” risuonerà tra gli sberleffi più gettonati dei tifosi, al pari dei nomi di altri illustri ultimi dello sport. Come Luigi Malabrocca che, al contrario del povero pilota veneto, non faceva nulla per evitare l’ultima piazza, anzi gareggiava fieramente con i rivali di retro classifica per conquistare la maglia nera: andava in fuga dietro al gruppo, entrava nei bar , si nascondeva nelle scarpate, nei fienili, nelle cantine, finché un giorno i cronometristi, stanchi dei suoi sotterfugi, gli attribuirono il tempo del gruppo, privandolo della gloria dell’ultimo posto.
E come Comunardo Niccolai, il massimo interprete di autoreti nel calcio italiano. Ne realizzó ben 11 in tutta la sua carriera, spettacolari come i gol del suo compagno del Cagliari, Gigi Riva: testa, destro, sinistro, controbalzo. Tale fu la sorpresa di vederlo esordire in nazionale ai Mondiali del ’70 che il suo allenatore dell’epoca, Manlio Scopigno, sbottò dal divano di casa: "Mi sarei aspettato di tutto dalla vita, ma non di vedere Niccolai in mondovisione".
A noi é toccato Badoer perfino in alta definizione.

domenica 6 settembre 2009

Pillole di Viagra

In questi giorni l’America vede sgambettare sui campi degli US Open truppe di belle ragazze provenienti dall’Ex Unione Sovietica. Slate e Marginal Revolution tentano di spiegare il motivo della strabiliante concentrazione di bellezza al di là della vecchia cortina di ferro.
Secondo alcuni l’avvenenza femminile è superiore nelle aree a maggiore ineguaglianza sociale. Secondo altri, la bellezza di molte slave ha origine nella superiorità numerica delle donne sugli uomini, che spinge le esponenti del gentil sesso ad una competizione spietata per la conquista di un uomo.
Migliaia di Italiani sono giá in coda alle frontiere dei Paesi dell'Est al grido di "Abbasso la concorrenza, evviva il monopolio della Russa"

L’Economist analizza la perdurante stagnazione del real estate americano esordendo con le disavventure immobiliari di Hugh Hefner.
Il celebre fondatore di Playboy ha venduto la residenza di Holmby Hills, in California, ad un imprenditore venticinquenne per 18 milioni di dollari, il 36% in meno di quanto richiesto.
La crisi monta, il “Padre delle conigliette” non più.

Le eroine repubblichine continuano a mietere successi.
Patrizia D’Addario, reduce dalle interviste dei network internazionali, è sbarcata alla Mostra del Cinema di Venezia, accolta da vera star.
Noemi Letizia, lasciate le feste sarde a base di gavettoni di Moet-Chandon, rilascia una lunga intervista al tabloid inglese Daily Mail.
Soddisfazione nella redazione de La Repubblica: “Quest’anno fattureremo più di Lele Mora”.

sabato 5 settembre 2009

C'è solo la strada

Al Giornale Radio annunciano il trasferimento dei terremotati dell’Aquila alle abitazioni provvisorie. Cronaca della smobilitazione, annunci della Protezione Civile, proclami del Premier.
Sul finire del servizio un terremotato racconta la tristezza di abbandonare gli amici incontrati nelle tendopoli. Non è affatto entusiasta di entrare in una casa che, pur temporanea, gli permetterà di girare in ciabatte sul pavimento, godere dell’intimità con la propria moglie, farsi una doccia senza l’assillo dello sguardo del compagno di tenda.

All’Aquila la gente non si nega alle telecamere anche se ha lasciato tra i calcinacci i bei vestiti, che sperava un giorno di sfoggiare in diretta dalla Clerici. I bambini, orfani della Play Station, si entusiasmano per le “carammelle” vinte alle partite di calcetto, i commercialisti, leniti i dissapori atavici, si fregano a tressette come i dopolavoristi del circolo e le signore, sedotte e abbandonate da Carlo Conti, hanno sostituito all’amante catodico la nuova amica seduta al tavolino.
In sei mesi tutti hanno dimenticato i programmi della lavastoviglie e perso dimestichezza con i tasti del cellulare, ma hanno messo in comune una memoria che non si misura in bit ma in ricordi.

Nelle case non c'è niente di buono
appena una porta si chiude dietro a un uomo
succede qualcosa di strano, non c'è niente da fare
è fatale, quell'uomo comincia ad ammuffire.
C'è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza
c'è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza
perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.


Giorgio Gaber. C'è solo la strada

L'amore ai tempi della ricerca

Il New York Times di pochi giorni fa ha cercato di sconfessare l’aforisma agrodolce di Dorothy Parker: “Woman wants monogamy. Man delights in novelty”.
Una ricercatrice di UCLA, Monique Borgerhoff Mulder, ha pubblicato uno studio condotto nei villaggi di Pimbwe, Tanzania, alla scoperta delle abitudini matrimoniali del luogo.
Il lavoro mette in discussione l’idea dell’uomo conquistatore inarrestabile, come un sultano che affastella concubine nel suo letto, e della sua moglie devota, dedita alla crescita dei figli.
Infatti anche le donne sono inclini alla monogamia seriale, cioè inanellano partner uno dopo l’altro, proprio come faceva Liz Taylor nei suoi anni ruggenti. Ma a differenza della Cleopatra per antonomasia, le peripezie familiari delle donne Tanzaniane non sono causate (solo) da irrefrenabile desiderio, ma da una accurata strategia di crescita dei propri figli. Grazie all’allegria sentimentale della madre, i figli finiscono in una cerchia allargata di custodi, padri naturali e acquisiti, tutti disposti a contribuire alla crescita della prole.
I dati empirici danno ragione alle donne poliandre: i loro figli hanno un tasso di sopravvivenza superiore rispetto alla prole delle donne monogame a vita e degli uomini, fedeli e farfalloni che siano.
In più, tra le donne, quelle con il più alto numero di matrimoni alle spalle sono considerate le compagne più affidabili, le lavoratrici più assidue e le madri più premurose. Un totale ribaltamento rispetto ai clichè del mondo Occidentale.
La Cultura Pimbwe è stata troppa perturbata nel corso degli anni dal colonialismo e dalle interferenze del governo per poter rappresentare il paradigma comportamentale dei nostri avi. Tuttavia può proporre a noi e ai nostri discendenti una soluzione per sfuggire alla maggior parte dei danni dei matrimoni, pur mantenendo il fascino che i contratti apparentemente emanano: (re)introdurre le unioni a tempo determinato. In fondo basterebbe apporre una piccola, ma provvidenziale modifica nelle promesse nuziali:
“... nella salute o nella malattia, finché morte – o scadenza - non ci separi”.