Roberto Saviano ha da poco compiuto 30 anni e da 3 vive sotto scorta. La sua unica fonte di libertà ormai sono le parole, distillate nelle appassionanti interviste che di tanto in tanto concede. Venerdì l’ultima, all’Era Glaciale.
In ogni trasmissione, Saviano subisce lo stillicidio dei filmati ingiuriosi degli abitanti di Casal di Principe. Si prende gli insulti e le calunnie con una serafica quiete dettata più dall’abitudine che dalla misericordia. Da pochi giorni ha scoperto che l'ostracismo nei suoi confronti si é esteso anche al di là dei territori sventrati di Gomorra. All’indomani della strage in Afghanistan lo scrittore sotto protezione ricorda che "i 6 caduti di Kabul sono tutti ragazzi meridionali" e invita tutti gli Italiani a riconoscere il sacrificio di ragazzi coraggiosi che hanno pagato con la vita la scelta di non finire nell'altro esercito, quello della criminalità.
Dal Nord si leva però un muro di indifferenza alla morte dei giovani soldati, sorretto da grevi ragionamenti come “Erano ben pagati, se la son cercata”, “Noi abbiamo il lavoro e loro la camorra”.
Due anni fa un Biagi sibillino gli aveva preannunciato il livore nutrito da molti suoi connazionali: “Hai fatto qualcosa che ti faranno pagare”. L’Italia non sopporta che qualcuno le sveli la sua coscienza degradata, indifferente al dolore ed assuefatta ad ogni tragedia.
Saviano affonda il coltello nella carne putrefatta, fa riemergere i rifiuti della memoria pubblica seppelliti dall'oblio. Istiga a prender parte, a rifuggire la neutralità. O sei contro o sei con il Sistema.
Per lui un assassinio truculento non è uno sporco rituale di sopravvivenza tra iene dello stesso clan. E’ il risvolto microscopico dell’universale tragedia umana. Se annusi bene, la coca spacciata tra le vele di Scampia ti conduce nei capannoni operosi e profittevoli della Brianza. Il sangue delle mattanze al Sud si trasforma in denaro pulito per le fabbriche del Nord.
Saviano è un uomo ossessionato da una lodevole ambizione: veicolare il senso tragico degli eventi attraverso la “parola scritta” e la sua immagine.
Dà dignità letteraria alle cronache locali e alle sentenze della magistratura, terreno per addetti ai lavori e giornalisti di provincia, come Manzoni ricopriva di significato universale le grida dei Governatori spagnoli. Cerca deliberatamente l'esposizione mediatica per fare della sua faccia un monito contro il disimpegno.
I suoi ultimi tre anni di passione sono scanditi da una domanda impudica: ne é valsa la pena?
Se all’inizio della sua avventura civile rispondeva in modo disincantato ed ottimista (“Certo che sì, credo che i boss abbiano altro a cui pensare”), man mano che la valanga di coscienze trafitte dal suo best seller montava e le condanne a morte pronunciate dai boss riempivano i dossier dei Servizi, le risposte si facevano più evasive. Fino alla resa: “Quel libro mi ha distrutto la vita”.
Ora Saviano vive le apparizioni televisive con lo spirito dell’evaso. “Sono le uniche occasioni in cui posso fare qualcosa di diverso e respirare un po’ di libertà”. Passa le giornate ordinarie sotto la cappa della scorta, immaginando i mille modi architettati dai suoi nemici per toglierlo di mezzo.
Nonostante abbia vissuto dieci vite in una, densa di riconoscimenti e attenzioni, è regredito nell'animo, come se la rabbia che lo spingeva a “scrivere con le nocche” sulla tastiera, ora lo accompagnasse in tutti gesti, dal tormentarsi gli anelli sulle falangi allo sfregarsi la testa lucida.
La rabbia come compagna di vita. Questo è il prezzo che ha pagato per aver anteposto all'ambizione di una vita serena l'utopia di un'ideale universale.
Diceva Edmond Burke: “Perché il male trionfi basta che i brav'uomini non facciano niente”. Credo che Roberto Saviano si sia caricato l’opera di molti di loro.
lunedì 28 settembre 2009
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