lunedì 31 agosto 2009

Pulp Mission


Inglorious Basterds è la Seconda Guerra Mondiale secondo Quentin Tarantino. Un film spensierato che si permette di riscrivere il destino in nome della passione cinefila e del cinema “di genere”.
Non aspettatevi un film monolitico, uno Schindler in salsa splatter. Immaginate piuttosto un’opera mutevole, che inizia come film di guerra, poi passa allo storico, accenna la commedia e arriva al gangster movie.
La pellicola, che si ispira palesemente a Quella sporca dozzina, spreca le citazioni perché, come ammette lo stesso Quentin, “I grandi artisti rubano”.
La sceneggiatura intreccia due storie che si riuniscono nel finale. La “pulp mission” di un manipolo di soldati giudaico-americani paracadutati nella Francia occupata per uccidere, e scalpare, i Nazisti, sotto la guida di Aldo «l' apache» (Brad Pitt) che con forte accento del Tennesse istruisce i suoi col motto “The Nazis need to be deeeestroyed”. E la storia introspettiva di una ebrea sopravvissuta al massacro della propria famiglia, assetata di vendetta contro il regime di Hitler.
Su tutto spicca l’interpretazione poliedrica di Christoph Waltz, nel ruolo dell’ ufficiale nazista Hans Landa, il vero protagonista, così sofisticato da parlare fluentemente quattro lingue, compreso l’italiano.
Tarantino regala due spunti di interesse.
Il primo è il tema tabù della vendetta del popolo Ebraico ai danni dei loro persecutori. Dopo sessant’anni, il cinema a senso unico che ha quasi ignorato le insurrezioni del Ghetto di Varsavia e le truppe di volontari Ebrei nell’esercito Sovietico concentrandosi sul sorriso triste di Anna Frank, dà anche un’altra versione dei fatti: non sono più i Nazisti i carnefici e gli Ebrei le inermi vittime. Così Tarantino si pone sulla scia di altri due recenti film “revisionisti”: Defiance, che narra di una comunità ebraica rifugiata in Bielorussia e Munich che ripercorre gli sforzi di Israele per assassinare i terroristi di Monaco ’72.
I tempi sono cambiati. La nuova immagine di Israele è quella di uno Stato militare potente che, dopo le recenti dimostrazioni di forza contro i suoi vicini, ha dimostrato (volenti o nolenti) di spadroneggiare con il supporto americano in Medio Oriente.
Il secondo spunto riguarda l’ambizione dello stesso Tarantino che legge la storia come una grande epopea criminale, un thriller. Dove Spielberg non si sognerebbe mai di proiettare uno schiavo di Hitler che tira fucilate sui tedeschi o Benigni di mostrare l' ebreo che frega il kapò, lì emerge la fantasia di Tarantino che filma dita infilate nella carne, scalpi scotennati e crani martoriati da randellate. Alla fine, la sua rilettura è così accurata e psicologicamente soddisfacente da rendere i Bastardi Senza Gloria onesti rivali dei loro predecessori cinematografici.
Tarantino, giunto alla maturità, sente la sua personalità più forte delle sue stesse opere. Per questo cerca di rinnovare i canoni del film di guerra che ha innalzato alla gloria i più grandi registi della storia recente: il Coppola di Apocalypse Now, il Kubrick di Full Metal Jacket, lo Stone di Platoon e lo Spielberg di Salvate il soldato Ryan.
La guerra è il momento culminante dei valori di una nazione perché, come diceva Eisenhower, “non fa spendere solo soldi, spende anche il sudore dei suoi lavoratori, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi bambini”. E, perché no, frutta il picco d’ incassi e di fama ai suoi narratori.

venerdì 28 agosto 2009

Beograd, stvarno najbolje!

Per Predrag i viaggi si programmano in una manciata di minuti. È sempre stato abituato a prendere un aereo o un treno dalla sera alla mattina, sin dai tempi in cui faceva la spola tra Belgrado e Roma, per un piacevolissimo motivo: la fidanzata italiana.
“Dai, se vuoi andiamo a Belgrado, così faccio una sorpresa ai miei genitori”. Non li vede da mesi. Sei o sette. E siccome non ha perso l’istinto dell’esploratore, nemmeno alla soglia dei trent’anni, mi propone un viaggio a tappe. Da Vienna a Bratislava in treno. E poi in bus fino a Budapest, giusto il tempo di mettere la bandierina su un’altra sponda del Danubio. Infine il treno notturno per la capitale serba. Arrivo previsto alle 6.15 del giorno successivo. “Tanto mio padre si sveglia presto”.
Ci penso su. Il prezzo del viaggio fa impallidire un Milano-Roma in seconda classe Espresso … e poi non posso mica passare per pantofolaio al cospetto di un trentenne. Così accetto la proposta in un’altra manciata di minuti.
Il destino del viaggio si gioca su pochi giri di lancette. Alla stazione di Vienna Predrag sta per far saltare il calibratissimo ingranaggio di coincidenze che abbiamo architettato. Si presenta alla stazione appena in tempo per farsi rimproverare e trascinare di peso al binario 2. È l’unico brivido di una mattina che trascorre tranquilla sui lunghi rettilinei della grande pianura Pannonia arsi dal sole.
Chi ha visto in tv di sfuggita l’Ungheria degli anni Ottanta, intristita dal Comunismo, è felice di trovarla indaffarata e impaziente, orgogliosa dei fiumi di investimenti dall’estero. È bello vedere gli ungheresi seduti sul bus passare con spensieratezza accanto al cartello della frontiera con le stelle dell’Unione Europea. La dogana e il visto sul passaporto fan parte dei ricordi.
Budapest, però, soffre degli stessi peccati di gioventù della nuova Europa. Ha concentrato gli sforzi sul centro storico per renderlo appetibile ai gusti dei turisti occidentali, dimenticando i quartieri popolari dove la gente comune vive ancora in un fastidioso degrado. In centro hanno installato internet sul wi-fi gratuito del servizio Pannonia.com (che originalità …), ma in periferia decine di barboni si aggirano tra i cassonetti in cerca di cibo.
La capitale magiara si divide tra le due sponde del Danubio: Buda e Pest. La prima, cuore storico della città, sorge su una collina che le divinità degli Unni posero strategicamente a guardia del Danubio per renderla presidio ideale del popolo di Attila. La seconda, ben più popolosa, ospita buona parte delle vie di tendenza, tra cui una supponente “Fashion Street” che strizza l’occhio ai nostalgici di Via Montenapoleone.
Trascorso il pomeriggio nel festival del folkore ungherese, allestito nelle viuzze del centro, torniamo alla stazione. Nella biglietteria malconcia, simile ai vecchi saloon western, gli impiegati compilano ancora i biglietti a mano, con carta copiativa e penna biro vecchio stile, in onore al celebre inventore che nacque da queste parti.
Sul treno Predrag inizia a riprendere confidenza con la sua terra. Entrano nella carrozza due distinti ragazzi serbi, appassionati di vecchi fumetti cult e dalla sciolta parlata inglese. Vengono da Amsterdam e tornano a casa per le vacanze. Passano al serbo quando il sonno incombente rende difficile esprimersi nella lingua straniera. Snocciolano discorsi incomprensibili da cui riesco ad estrarre solo qualche frammento: Kosovo, Milosevic, Unione Europea. Facile intuire il senso delle loro parole. A Predrag e agli altri non va proprio giù l’isolamento in cui la loro nazione è finita dopo la guerra del ’99. Hanno una gran voglia di entrare nel circolo dell’Europa che conta ma qualche scheletro nell’armadio e questioni geopolitiche glielo impediscono. I ragionamenti si fanno più tesi quando, alla frontiera tra Ungheria e Serbia, mi basta mostrare il passaporto per ricevere il timbro del visto d’ingresso mentre loro, cittadini extra-EU, subiscono lo smacco di essere controllati dalla polizia ungherese in contatto telefonico con l’Interpol.
Il giorno arriva a Belgrado. L’aria pungente del mattino si stempera con i primi raggi di sole che svelano i segni delle guerre. Alcuni palazzi in centro, un tempo sedi di ministeri e accademie militari, sono ancora sventrati. Le voragini dei palazzi di Milosevic mi scuotono. Vedere dal vivo quegli spaventosi crateri è ben altra cosa rispetto ad osservare le immagini dei bombardamenti da casa. Per i belgradesi, però, sono solo elementi del paesaggio urbano, innocue rovine storiche a cui si sono abituati. Il bus attraversa Belgrado, prima nel centro, dove nove anni fa due milioni di persone, tra cui Predrag e i suoi amici, rovesciarono Milosevic, poi nei sobborghi, dove sorgono gli stadi della Stella Rossa (il mitico Maracàna) e del Partizan, un tempo infuocati catini delle sfide di Coppa dei Campioni, oggi relitti fatiscenti della gloria passata. Saliamo su una collina costellata di piccole ville monofamiliari. Qui abita la piccola borghesia. Il papà di Predrag, Danilo Krstic, sta innaffiando i fiori sul terrazzo in pantaloncini. “Tatà” gli sussurra il mio compagno di viaggio, con voce frenata dall’emozione. Il padre lancia uno sguardo sospettoso verso la strada e ricambia con un timido “Pedja”. Sembra corrucciato, ma sono scherzi della gioia: “Fa sempre così – mi tranquillizza Predrag - Nasconde le emozioni ma dentro di sé è felice”.
La mamma di Predrag, Dragica, non è in casa. Lavora nel Kosovo settentrionale, a maggioranza serba. Da pochi mesi si è trasferita in un laboratorio di microbiologia. Il primo pensiero del signor Danilo va a lei: “Dobbiamo assolutamente chiamarla”. Come consuetudine dei Krstic, tutto si decide in una manciata di minuti: rapido giro di telefonate tra Belgrado e il Kosovo e la signora Dragica si mette immediatamente sulla strada del ritorno. Intanto Tatà Danilo si ispira alla parabola del Figliol Prodigo e scongela la deliziosa carne di cervo che conserva per le occasioni importanti.
Sono da poco passate le 2 del pomeriggio quando la signora Dragica torna a casa. “Madre non ci crede ancora che sono arrivato” dice in un italiano un pò stentato Predrag, emozionato, prestando la spalla all’ennesima pacca della signora incredula.
Si siedono sul divano e si tuffano nei ricordi di famiglia. Dagli album fotografici escono i pettorali virili di Predrag tredicenne in posa da culturista, i basettoni di un giovane Danilo, gli occhi vispi del fratello Nenad, talento dell’animazione, in trasferta in Ungheria.
Le due giornate in trasferta serba filano via veloci come le ruote della Renault Clio dei Krstic lungo le strade di Belgrado: dalle spiagge lungo la Sava al Monte Avala, dal castello medievale che sorveglia la città ai battelli sul Danubio, dove si raduna il tifo tennistico per l’idolo della nazione, Nole Djokovic.
Lunedì mattina ci attende la partenza e una nuova sorpresa: Nenad è tornato dal lago Balaton, carico di valigie e di idee da concretizzare nei suoi disegni. Ci incontriamo davanti la stazione. Chi è appena sceso dal treno e chi sta per salirci. Predrag mi incita a recitare i motti che ho imparato con i suoi amici e insieme insceniamo il famoso spot di Mancini e Mihajlovic che esaltano la “migliore birra” nazionale -“Pils stvarno najbolje!”- per convincere il fratellino che due giorni ad insegnarmi il serbo non sono passati invano.
Il nostro treno sta per partire. Vienna ci attende. Il ricongiungimento familiare dura il tempo di qualche confidenza sussurrata e di rapidi flash fotografici. Una manciata di minuti in tutto. Si fa così a casa Krstic, no?

mercoledì 26 agosto 2009

Coincidenze

Per qualche tempo non ci saranno serate al Qube, sede del Muccassassina, celebre festa gay di Roma. La scorsa notte qualche “scalmanato” ha infranto i vetri dell’ingresso e gettato liquido infiammabile per provocare un'incendio.
Evidentemente i teppisti non hanno gradito l’arresto di Alessandro Sardelli, noto con il soprannome di Svastichella, accusato di aver aggredito due ragazzi gay pochi giorni fa.
Proprio ieri sul New York Times, uno dei più autorevoli quotidiani americani, ho letto le partecipazioni di nozze di due donne. Sotto l’annuncio c’erano le due brevi biografie e i reciproci messaggi d’amore.
In qualche posto nel mondo i sentimenti sono già al riparo dalla violenza cieca dell'ignoranza.

giovedì 20 agosto 2009

Vanità al potere

Ennesima “esclusiva”di Chi , diretto da Alfonso Signorini, al presidente Berlusconi che posa con i tre figli avuti da Veronica Lario.
Le interviste riparatrici al premier sono la consuetudine del più popolare giornale di gossip del gruppo Mondadori, proprietà della famiglia Berlusconi. Si stenta ormai a chiamare “esclusiva” un altro servizio “fai-da-te” che corre in soccorso del presidente farfallone arenatosi tra i sospetti sulla sua vita privata.
Intendiamoci, la propaganda di governo va forte anche all’estero: solo pochi giorni fa Putin in versione “Attila” sfoggiava muscoli imbolsiti alle prese con il lavoro della campagna in un servizio fotografico palesemente pilotato.
Tuttavia il caso italiano ha qualche peculiarità: il giornale popolare non è subordinato alla volontà del potente, ne è anzi la spalla strategica e complice. Signorini non è solo il colto cortigiano incaricato di veicolare l’immagine del leader al popolo, è il regista di una nuova poetica della propaganda, lo spin doctor della famiglia Berlusconi, unico giornalista a sedere tavolo degli sposi al matrimonio del suo editore, Marina B.
In un Paese che stenta a riconoscersi nelle istituzioni, Chi si é dimostrato negli anni il giornale più istituzionale, l’equivalente di Porta a Porta nella carta stampata. Con una lunga serie di servizi ed edizioni speciali, Signorini ha tracciato il ritratto agiografico del mito berlsconiano, dagli esordi canori al compassato ruolo di capofamiglia, attorniato dai discendenti e illuminato da una splendente cornice patinata.
Signorini è più di un potente direttore, è arbitro inappellabile dello stile di tendenza. Dal suo osservatorio del gossip determina chi sale e chi scende nel borsino delle celebrità, stila le gerarchie dello spettacolo come Stalin assegnava le poltrone sugli spalti della Piazza Rossa il 9 Novembre.
Rilancia l’immagine degli imprenditori reduci da pallide performance manageriali con foto scattate accanto a splendide donne in kermesse esclusive.
Convince addirittura i politci di sinistra, storicamente lontani dal richiamo dei lustrini, dell’appeal elettorale delle foto posate in famiglia.
Ogni epoca ha avuto artisti impegnati nella sublimazione dell’immagine del condottiero: dietro i poemi di Virgilio si nascondeva il progetto politico di Augusto e l’arte di Jacques Louis David era funzionale alle ambizioni di Napoleone.
Nel XXI secolo, la crescita del benessere si accompagna all’esaltazione del superfluo, ormai non più percepito come frutto del degrado morale bensì come cardine della società industriale. Alfonso Signorini, fabbricatore smaliziato dell’estetica dell’apparenza, ha contribuito a sdoganare il superfluo, anzi a trasformarlo in arte.

martedì 18 agosto 2009

Twisted words


Da ieri i Radiohead regalano un brano inedito sul loro sito ufficiale. La canzone, l’oscura These Are My Twisted Words, segue di pochi giorni Harry Patch (In Memory Of), inedito dedicato ad un veterano della Prima Guerra Mondiale, disponibile online al prezzo di un euro.
Queste iniziative non sono inedite per il gruppo di Oxford. Due anni fa avevano sconvolto il mondo discografico mettendo in rete il loro disco “In Rainbows” in modalità "up to you", cioè lasciando decidere all’acquirente quanto pagare. Nonostante una cospicua parte dei fan non avesse versato nemmeno un centesimo, l’operazione si rivelò mediaticamente fragorosa ed economicamente vantaggiosa per la band: circa 3 milioni di copie vendute, ripartite quasi equamente tra download e acquisti della versione fisica del disco, realizzata pochi mesi dopo quella virtuale.
E ora? Dalle parole di Thom Yorke al mensile The Believer sembra che i Radiohead vogliano continuare a rivolgersi direttamente al loro pubblico, ormai ampiamente fidelizzato.
Dietro questo progetto non c’è solo l’interesse economico ma anche il tentativo di scompaginare ulteriormente il settore discografico, con il supporto della tecnologia che ormai ha privato di ogni utilità i supporti tradizionali, come i CD.
La diffusione dei file MP3 e dei lettori digitali da dieci anni a questa parte avrebbe permesso ad ogni musicista di liberarsi dei vincoli contrattuali con le case discografiche e offrire musica al proprio pubblico senza interposizioni. Ma pochissimi artisti l’hanno fatto, per giunta criticati dalla maggioranza dei colleghi e osteggiati dalle stesse major.
Perché? Probabilmente molti avevano già deposto le armi prima di iniziare la battaglia, credendo il nemico Peer-to-peer troppo radicato tra i giovani consumatori di musica e affidando le uniche speranze di guadagno ai concerti, le cui entrate sono triplicate negli ultimi 5 anni.
E’ paradossale che siano proprio i Radiohead a portare il vessillo dell’innovazione digitale. Non piú di cinque anni fa impedirono ad Apple di vendere separatamente i brani dell’album Kid A sull’allora neonato I-Tunes. “Estrarre un brano dall’intero lavoro significa privare di senso il brano stesso”. Ora Yorke rifugge addirittura dall'idea di concepire un disco: “Nessuno di noi vuole finire di nuovo in quel caos creativo”. Twisted words, appunto.
I Radiohead hanno cambiato rotta così radicalmente perché hanno capito che la rivoluzione non implica solo un cambiamento nella distribuzione, ma anche nella concezione stessa della musica: i fruitori non sono più abituati ad ascoltare un intero album, figurarsi a comprarlo.
Nessuno puó intuire le sue prossime mosse dell’imperscrutabile mente di Yorke & soci, né stabilire se il loro sia il modello vincente nel mercato musicale del futuro. Di certo, tra qualche anno, il progetto dei Radiohead sarà considerato, al pari della loro opera, una pietra miliare della musica di inizio millennio.

Woodstock non é solo un pennuto

In questi giorni non posso non provare un pó d'invidia per la ribelle generazione dei baby boomers che festeggia Woodstock. Dannazione, loro hanno troppe occasioni per dire “Io c’ero…”. Solo un mese fa ho sentito un sacco di presbiti demodè ricordare lo sbarco sulla Luna che hanno vissuto con il trasporto di ragazzi affascinati. La mia generazione invece non ha un arrivo su Marte da raccontare e pensa che Woodstock sia l’uccellino di Snoopy.
Nessuno dei miei coetanei “ottantini” ha nel proprio i-pod Janis Joplin e The Band e proprio non capisce perché i suoi genitori debbano spacciare un concerto di reliquie musicali come un mito generazionale. Non hanno del tutto torto a pensare che la rievocazione di quel concerto, a quarant’anni di distanza, sia una stanca ricorrenza per dirigenti e impiegati brizzolati, ormai dimentichi dei loro fervori giovanili: Woodstock non è stato il primo grande raduno rock, né il più affollato, non ospitò i Beatles e i Rolling Stones, e non si tenne nemmeno a Woodstock, bensì a Bethel, un villaggio di contadini e allevatori di maiali.
Ma allora, è stato un bluff?
I sessantenni accorsi sul mitico anfiteatro naturale nello stato di NY in occasione dell’anniversario, hanno abbandonato i toni di genitori ansiosi al tempo della crisi e hanno pronunciato parole commosse, nostalgiche : “I was stoned when I got here. The music was almost secondary to the experience of just being here”.
Non solo rock, dunque. Woodstock rimane nella memoria perché celebrò una gioventù nuova, ispirata dalla pace e dai sentimenti universali e mantenne fede al suo slogan: “Tre giorni di pace e musica”.
All’indomani degli attentati dei Kennedy e di Martin Luther King, delle barbarie di Charles Manson, delle stragi in Vietnam, tutto filò liscio. Nonostante l’assenza di servizi igienici, la pioggia insistente, lo scarso cibo, compensato da acidi in abbondanza, i ragazzi mantennero un decoro che colse di sorpresa l’establishment: Barnard Collier, inviato del New York Times, dovette lottare non poco con la redazione perché non fosse taciuto il carattere pacifico e ordinato della manifestazione.
E poi la musica, nutrimento della generazione hippie, che credeva nell’avvento dell’Era dell’Acquario e faceva uso di droghe per espandere la coscienza. La musica rispecchiava il desiderio di infrangere gli schemi, al pari della filosofia di Marcuse, delle poesie di Ferlinghetti e dei romanzi di Kerouac che tenevano banco a Berkley e nelle altre università americane. Proprio a metà anni ’60 iniziò ad assumere sonorità variegate e sorprendenti: dal country di Crosby, Stills e Nash al blues elettrico di Jimi Hendrix, dai suoni psichedelici dei Jefferson Airplane al rock degli Who. Tutti presenti su quel palco, a cavallo del Ferragosto ’69.
Ancora oggi Woodstock stimola le più accese diatribe tra chi lo vede come un curioso matrimonio tra cultura hippy e capitalismo (Woodstock Venture, la società costituita allora dai quattro organizzatori continua a garantire ai fondatori lauti guadagni) e chi ne celebra l’identità culturale, le icone, gli inni.
Fu con quel concerto che la gioventù del dopoguerra arrivò allo zenit autocelebrativo, preludio del declino : da quel momento lo "hippismo" divenne vulnerabile alle imitazioni e alle banalizzazioni che trasformarono lo spirito ribelle di una generazione in puro dato stilistico.
La questione se sia giusto celebrare il culto di Woodstock non si pone: va ricordato come ogni storico evento di costume, cioè come momento di sintesi di valori e culture. E a commemorarlo non devono essere solo i nostalgici sessantenni occhialuti che ebbero la fortuna di viverlo da contemporanei, ma tutti quelli che, a distanza di anni, si sono entusiasmati con le immagini sgranate eppur vivide dell’evento rock per eccellenza.

sabato 15 agosto 2009

Vademecum per la spesa austriaca

1. Non parlate inglese al banco degli affettati. Invece di acquistare del pane integrale e del prosciutto di Parma, vi appiopperanno pan carré scaduto e speck slovacco. Consultate il vocabolario di tedesco a casa.
2. Non mettetevi mai in coda dietro una signora di una certa età. Le chiederanno se prende anche una fetta di Emmental anche per suo figlio.
3. Non dimenticate mai di dividere la vostra spesa da quella altrui alla cassa. Senza un separatore sul tapis-roulant le cassiere austriache sono disperate: al contrario delle italiane, non capiscono dove finisce la vostra spesa vegetariana e comincia quella del vecchio alcolista. Correte il rischio di pagare il conto di un’intera distilleria.
4. Non abbiate soggezione delle cassiere austriache se vi fissano con lo stesso disprezzo con cui le donne nostrane osservano i calzini bianchi: hanno lo sguardo torvo anche al battesimo del figlio.
5. Portate sempre la busta della spesa da casa. Non la vendono alla cassa, come in Italia, ma a 3 cm da terra, incastrate tra il dispenser dei chewing gum e il frigo dei gelati. Quando ve ne ricordate è sempre troppo tardi per andare a recuperarla dietro la barriera di carrelli degli altri clienti.
6. Comprate tutto in pacchi da sei pezzi, solidi e compatti. Sono le uniche cose di cui le cassiere sanno rintracciare il codice a barre senza arrivare alla calende greche. Dimenticate quindi le buste di mele sfuse che si muovono come le palline del flipper o le bottiglie di aceto a forma del Mercurio di Giambologna.
7. Non mostrate mai una carta di credito straniera. Scuoteranno il capo, digrigneranno i denti, ed emetteranno il responso: “Bar Zahlen”. “Pagare in cash (se non vuoi che ti sguinzaglio il tipo della security)”.
8. Non pagate con meno di cinquanta euro, per non dare meno di quanto dovuto. Non pronunciano mai il prezzo o lo fanno in modo incomprensibile con il display rivolto verso di loro.
9. Non arrabbiatevi se le cassiere sparano i vostri acquisti agli angoli dello scivolo con la precisione di un giocatore di biliardo. Tutti gli articoli hanno la resistenza della gomma Meliconi, dalle bottiglie in vetro alle primizie di pomodori. Il motivo è ignoto.
10. Se poi ne avete abbastanza del supermercato austriaco, andate al ristorante. Italiano!

giovedì 13 agosto 2009

Alinejad

Alinejad Masih fa la giornalista in Iran, dove quaranta colleghi sono in carcere dal giorno del voto, il 12 giugno, per aver testimoniato le rivolte contro la vittoria di Ahmadinejad. Sogna di intervistare il Presidente degli Stati Uniti, che dal governo Iraniano sono osteggiati con odio e da trent’anni non hanno nessuna rappresentanza diplomatica a Teheran.
La sua attività è turbata continuamente dalle angherie dei sostenitori del regime e delle autorità. Interrogatori, auto distrutte e casa violata il giorno delle elezioni. In Iran, infatti, la conoscono bene: si è fatta la fama di “canaglia” quando 3 anni fa dileggiò il presidente Ahmadinejad in un viaggio propagandistico e lo invitò pubblicamente ad un’intervista con l’incalzante appello “Talk to me, Mr. Ahmadinejad, if you dare to.
Per resistere in Iran devi far tuo il detto “la miglior difesa è l’attacco”. E lei si difende con i modi che sa: un taccuino, un computer e tanta passione. “Pubblico tutto sul mio blog. Svelare le notizie mi aiuta a non tenere segreti. Se li avessi, i servizi segreti mi farebbero a pezzi. ”
Da quando il New Yorker ha richiamato l’attenzione dei lettori sulla sua vicenda, le visite sul suo diario telematico sono raddoppiate e il suo profilo su Facebook ha raggiunto il limite di amicizie.
Qualche giorno fa le ho scritto parole di stima accompagnate da un “Never give up” che lei spesso ripete per darsi forza. Per attenuare la vanità delle mie parole, le ho promesso di fare il possibile per far conoscere la sua storia. Oggi parte della promessa è mantenuta.
Il resto del patto lo considererò saldato solo quando Alinejad potrà raccontare un Iran diverso.

martedì 11 agosto 2009

The Piper at the gates of dawn

La sera dopo il lungo viaggio. La pioggia fitta illuminata dai bagliori dei fulmini.
La radio regala la psichedelia di Syd Barrett: combinazioni acide di chitarre sferzanti, violente come vernice scagliata su tela e liriche ispirate a favole oniriche e sinestesie lisergiche.
I suoni si colorano di emozioni. L’arancione di “See Emily Play”, il verde smeraldo di “Arnold Layne”, l’oscurità spaziale di “Interstellar Overdrive”.

Jupiter and Saturn
Oberon Miranda and Titania
Neptune Titan
Stars can frighten...you
Lime and limpid green
a second scene,
A fight between the blue
you once knew.


Syd è consapevole del genio virulento e pericoloso che rischia di amputare il futuro del suo gruppo, i Pink Floyd. In “Jugband Blues” rivendica, peró, la sua luciditá in risposta a chi lo crede solo uno schizofrenico.

And I don't care if I'm nervous with you
I'll do my loving in the winter.
And the sea isn't green
And I love the queen
And what exactly is a dream
And what exactly is a joke.


Syd ci ha lasciati tre anni fa, dopo trent'anni passati in silenzio a fare il giardiniere nella sua villetta: aveva abbandonato i suoi compagni prima che esplorassero il lato oscuro della luna e varcassero il muro della celebrità. Un diamante pazzo che aveva smesso di brillare troppo presto per entrare nella memoria collettiva.
Stasera mi addormenterò sulle note del suonatore di cornamusa che mi condurrà alle porte della prossima alba.

Un'eredità scomoda

Giuseppe Fava era un giornalista siciliano, assassinato da Cosa Nostra il 5 gennaio 1984.
La sua colpa non era di aver sedotto la donna di un boss, come il menzognero passaparola innescato dalle "famiglie" aveva lasciato credere, ma di aver accusato chiaramente i clan di truccare appalti e corrompere la pubblica amministrazione.
“I Siciliani”, un giornale libero, senza padroni e referenti, ha scavato nella coscienza omertosa della società creando i primi germogli di resistenza attiva contro la Mafia, tra gli anni ’70 e ’80.
A distanza di più di venticinque anni, il Tribunale di Palermo ordina al quotidiano, da tempo sciolto, di pagare le spettanze ai creditori, e pone sotto pignoramento il patrimonio dei giornalisti.
I figli decidono di saldare il debito di circa settantamila euro con lo Stato che ha dimostrato ingratitudine verso un eroe della resistenza siciliana.
Una scelta incomprensibile d'istinto, ma necessaria e degna. Per spiegarla mi sono affidato alle parole di Socrate nel Critone:
Pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?

Cronache dalla frontiera

La frontiera si è spostata più in là. Fino a sessant’anni fa il Danubio segnava il confine tra il mondo occidentale e le frattaglie sovietiche, di cui Bratislava era l’avamposto. Ora l’Europa capitalista ha attratto a sé la capitale slovacca: poco più di un’ora di treno da Vienna, fiumi di turisti, vita di tendenza.
Martin, trentenne slovacco, sociologo e collaboratore di una società di marketing, ci guida alla scoperta di uno dei simboli dell’Est rampante. Ci aspetta alla stazione di Petržalka, il sobborgo progettato dai sovietici sull’altra sponda del Danubio, dopo la seconda guerra mondiale. D’impatto Bratislava mi è cara. Mi riapproprio del gusto di aspettare per piú di quindici minuti i bus rattoppati, osservo i marciapiedi dissestati pensando al mio meridione distratto, mi affeziono agli abbinamenti architettonici dissonanti: le vecchie case da regime, schierate come un esercito di combattenti stanchi, pian piano scompaiono a favore di nuovi edifici slanciati progettati per ospitare giovani coppie. Qui c’è anche il gigantesco shopping mall dove ci tratteniamo a pranzo. “Centomila Euro per cinquanta metri quadri. Un appartamento costa più che a Vienna, i prezzi sono aumentati molto in pochi mesi, molti dei miei amici non sanno più se comprare una casa nuova” ci racconta Martin, mentre inforchetta l’halusky, gli gnocchi slovacchi. L’arrivo della moneta unica pochi mesi fa è stato accolto con grande speranza: “Pensa a quanti turisti in più potranno arrivare qui invece che a Vienna, grazie all’aeroporto. E il meglio deve ancora venire: nel 2012 l’Austria e la Germania apriranno le frontiere ai lavoratori slovacchi. Ci saranno grandi opportunità per noi”. Chissà cosa ne pensano i muratori nell’Alta Austria che temono di essere spazzati via dai lavoratori dell’Est. Sembra che solo loro, i nuovi arrivati delle ex repubbliche sovietiche, riescano a trovare i vantaggi dell’Unione a 27. Dentro il centro commerciale ci sono centinaia di persone: i bambini scorrazzano tra i giochi al centro del boulevard, i giovani affollano i negozi di telefonia, attratte dalle offerte stracciate, i patiti del fitness corrono sui tapis-roulant del cento benessere. Potrebbe essere Roma o una cittá in Carolina del Nord, invece è un ex baluardo comunista. A pochi passi dal centro commerciale, lungo la riva del Danubio, la T-Mobile ha insediato una spiaggia artificiale, un piccolo villaggio turistico con campi di calcetto e beach volley. Il drink e i Ray Ban sono d’ordinanza. Un martellante ritmo arriva da un battello: é la musica latino-americana che agita decine di belle ragazze. I turisti britannici le guardano con inspiegabile sufficienza, quasi con distacco. “Non farci caso – mi tranquillizza Martin – sono venuti qui per festeggiare l’addio al celibato dei loro amici. La notte, mentre gli italiani e gli spagnoli si danno da fare con le nostre ragazze, loro pensano solo ad ubriacarsi. Sono i vostri migliori alleati!”. E come dargli torto? Di notte la cittá si trasforma da meta turistica di massa in uno degli epicentri della movida europea. Le donne portano in giro i loro lustrini e aspettano civettuole i richiami dei ragazzi latini che affollano i bar e i locali del centro. Mentre gli alfieri britannici pensano a battere i record di velocitá e resistenza di ingestione di alcolici, spagnoli e italiani si contendono lo scettro di seduttori. Il risultato non ha importanza. Mai come in questi casi l’importante è partecipare.

Freakonomics, part 2

Dietro il profitto stellare di Goldman Sachs che aveva destato sorpresa e sospetto c’è (in parte) una giustificazione.
GS si è dotata di computer superveloci per precedere tutti gli altri investitori, istituzionali e non, e monetizzare le opportunitá di arbitraggio concesse dal mercato. D’accordo, sono spiccioli su ogni singola transazione, ma provate a moltiplicarli per i milioni di compravendite effettuate ogni giorno e otterrete grandi profitti (per GS) e smisurati costi sociali.
“Il grado di velocità è direttamente proporzionale all'intensità dell'oblio”
Milan Kundera, La Lentezza

venerdì 7 agosto 2009

Il campione é figlio del suo tempo

Quarantatre record del mondo. Quarantatre! Non se n’erano mai visti cosí tanti in una stessa vasca durante un Mondiale.
Doping a gogó o progresso fisico e tecnico strabilianti? No, questione di poliuretano.
Il segreto sta nelle fibre dei costumi che hanno trasformato i nuotatori in palombari da piscina: forma aerodinamica, migliore galleggiamento, incremento della potenza.
Un voto quasi unanime delle federazioni nazionali ha peró bandito i costumi high-tech a partire dal 2010. Gli orologi della tecnologia in vasca ritorneranno indietro di circa dieci anni, prima dell’introduzione dei “costumoni” da sub, e i cronometri saranno di sicuro piú parchi di record.
Quando scienza e sport sono legati in modo cosí intricato, nascono domande sul ruolo della tecnologia applicata allo sport. Lasciare il merito della performance interamente allo sportivo o permettere l’“aiutino”? La storia non ammette dubbi: lo sviluppo dei materiali è stato sempre favorito.
Per restare al nuoto, Johnny Weissmuller, primatista dei 100 metri degli anni ’20, reso immortale dall’interpretazione di Tarzan, è stato surclassato da Mark Spitz, olimpionico munito dei ben piú performanti costumini floreali in lycra.
Lo sviluppo tecnologico é visibile in tutti gli altri sport.
I golfisti degli anni '20 “armati” di mazze di metallo non potrebbero competere con Tiger Woods equipaggiato con strumenti in titanio. E Jesse Owens avrebbe potuto fare faville con le scarpe di Carl Lewis, figurarsi con quelle di Usain Bolt…
Eppure nessuno pensa di imporre al talentuoso Tiger gli strumenti di 80 anni fa o al dirompente “Fulmine” giamaicano le calzature di tela degli anni ’30.
Siamo proprio sicuri che ostacolare ora la tecnologia sia un propellente per lo spettacolo e per l’autenticitá dello sport?
Sono anni che la Formula 1 cambia i regolamenti, non solo per rivoltare i rapporti di forza, ma anche per imbrigliare lo sviluppo galoppante delle prestazioni. Risultato? Ascolti e sorpassi in calo costante. Liti? Innumerevoli.
Dal 2000, per battere il leggendario record dell’ora bisogna una usare una bici su cui a mala pena Eddie Merckx sarebbe sarebbe salito per una gita nelle Fiandre. Se fino a 10 anni fa tutti i migliori ciclisti volevano battere quel primato con l’aiuto di velocipedi avveniristici, ora solo qualche atleta di retroguardia si cimenta nell’impresa, nell’indifferenza del pubblico.
La domanda, a questo punto, è se tale controrivoluzione verso il progresso tecnologico sia l’inizio di una crociata contro ogni forma di innovazione nello sport. La vicenda di Oscar Pistorius, campione di atletica e di tenacia, è il segno che i “farisei” stanno imponendo allo sport uno status di immobilità che l'agonismo, per definizione, non ha mai avuto. Lo sport è confronto dell’uomo con se stesso e con gli strumenti del suo sforzo. Il miglioramento non puó prescindere da nessuno dei due fattori.
Provate a chiedere al poeta del tennis Gianni Clerici se sia piú forte Federer o Lendl, Borg o Perry. Risponderà senza indugio che ognuno di loro è figlio del suo tempo.
I campioni non agiscono in un eterno presente. La bellezza dello sport risiede proprio nell’impossibilitá di confronti generazionali. Cosí ogni campione restera' il migliore della sua epoca e la sua gloria rimarrá intatta agli assalti dei successori nel libro dei record.

lunedì 3 agosto 2009

Mein name ist…

Dopo tre settimane passate a bofonchiare “Ein apfel, bitte” ai fruttivendoli e annuire contrito alle parole incomprensibili dei passeggeri in metropolitana, ho deciso di iscrivermi ad un corso di tedesco.
In uno stanzino sperduto al settimo piano dell’edificio F va in scena una puntata di “Non è mai troppo tardi” in versione teutonica: di giovani disposti a sacrificare tre giorni alla settimana in agosto nemmeno l’ombra, in classe solo volenterosi cinquantenni in cerca di nuove emozioni con le valchirie di mezza età. Non c’è il maestro Manzi, ma la giovane professoressa Heike che, per rompere il ghiaccio, mi passa un leoncino di pezza chiedendomi “Wie ist dein name?”. Sul momento mi chiedo se invece di iscrivermi ad un corso di lingua mi sia inserito in un gruppo di recupero mentale, poi getto lo sguardo sul foglio di fronte a me con la risposta “Mein name ist…”. Il peggio deve ancora venire, però. La Prof. inizia a parlarmi in tedesco con un tono tra l’affettuoso e il compassionevole. Con quella voce potrebbe dire qualsiasi cosa, dalla coniugazione del verbo “Mussen” all’incipit delle “Affinità elettive” di Goethe. Mai potrei immaginare che quella sinfonia di gutturali e “scharfes S” significhi “Dai su, lancia il leoncino a uno dei tuoi compagni e chiedigli come si chiama”. Io lo cedo allo scozzese Paul per ringraziarlo del suggerimento sottobanco. Lui, orgoglioso della discreta confidenza con la lingua, in un men che non si dica si presenta in perfetto tedesco e scaglia il felino come un giavellotto dal lato opposto della sala sfiorando il volto di un supervisor indonesiano. Sull’orlo del conflitto diplomatico, interviene Heike che ci distoglie dalla sorte dell’animale posticcio e dei due contendenti scrivendo due parole sulla lavagna: “Nominativ” e “Dativ”. La mia memoria si accende, ripesca nel passato le nozioni del ginnasio e inizia a tempestarmi di suffissi e radici. Il “neutro”, che nella mia vita è ormai tornato ad essere un sapone, riappare improvvisamente accompagnandosi ad aggettivi e sostantivi.
Per domani sono preparato: ablativo assoluto e un passo del “De Senectute” di Seneca... O no?

(Non) e' un paese per vecchi

C’e’ qualcosa di piu’ senile di una gita in barca sul Danubio? Forse solo un pranzo moderatamente alcolico in una veranda di oleandri affacciata sul grande fiume. Bene, ieri non mi solo lasciato sfuggire ne’ l’uno ne’ l’altro.
La valle del Wachau, una lingua disegnata dal Danubio e ornata di vigneti lungo i pendii sembrava trendy quanto Saint Tropez, solo un po' piu' rurale: ragazzi assiepati sulle spiaggette sassose acclamavano i battelli, come tifosi sui tornanti dell’Alpe d’Huez e arditi banchieri guidavano nudi i loro motoscafi, con le immancabili bionde al fianco.

Mi chiedo dove siano finiti i vecchi. Sono confinati nella balera di Leopoldgasse negli stanchi pomeriggi d’agosto? O forse qui i giovani provano un irrefrenabile gusto per le degenerazioni senili?
E soprattutto, sto entrando definitivamente nello spirito del luogo o sto solamente invecchiando precocemente?