giovedì 13 agosto 2009

Alinejad

Alinejad Masih fa la giornalista in Iran, dove quaranta colleghi sono in carcere dal giorno del voto, il 12 giugno, per aver testimoniato le rivolte contro la vittoria di Ahmadinejad. Sogna di intervistare il Presidente degli Stati Uniti, che dal governo Iraniano sono osteggiati con odio e da trent’anni non hanno nessuna rappresentanza diplomatica a Teheran.
La sua attività è turbata continuamente dalle angherie dei sostenitori del regime e delle autorità. Interrogatori, auto distrutte e casa violata il giorno delle elezioni. In Iran, infatti, la conoscono bene: si è fatta la fama di “canaglia” quando 3 anni fa dileggiò il presidente Ahmadinejad in un viaggio propagandistico e lo invitò pubblicamente ad un’intervista con l’incalzante appello “Talk to me, Mr. Ahmadinejad, if you dare to.
Per resistere in Iran devi far tuo il detto “la miglior difesa è l’attacco”. E lei si difende con i modi che sa: un taccuino, un computer e tanta passione. “Pubblico tutto sul mio blog. Svelare le notizie mi aiuta a non tenere segreti. Se li avessi, i servizi segreti mi farebbero a pezzi. ”
Da quando il New Yorker ha richiamato l’attenzione dei lettori sulla sua vicenda, le visite sul suo diario telematico sono raddoppiate e il suo profilo su Facebook ha raggiunto il limite di amicizie.
Qualche giorno fa le ho scritto parole di stima accompagnate da un “Never give up” che lei spesso ripete per darsi forza. Per attenuare la vanità delle mie parole, le ho promesso di fare il possibile per far conoscere la sua storia. Oggi parte della promessa è mantenuta.
Il resto del patto lo considererò saldato solo quando Alinejad potrà raccontare un Iran diverso.

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