martedì 18 agosto 2009

Woodstock non é solo un pennuto

In questi giorni non posso non provare un pó d'invidia per la ribelle generazione dei baby boomers che festeggia Woodstock. Dannazione, loro hanno troppe occasioni per dire “Io c’ero…”. Solo un mese fa ho sentito un sacco di presbiti demodè ricordare lo sbarco sulla Luna che hanno vissuto con il trasporto di ragazzi affascinati. La mia generazione invece non ha un arrivo su Marte da raccontare e pensa che Woodstock sia l’uccellino di Snoopy.
Nessuno dei miei coetanei “ottantini” ha nel proprio i-pod Janis Joplin e The Band e proprio non capisce perché i suoi genitori debbano spacciare un concerto di reliquie musicali come un mito generazionale. Non hanno del tutto torto a pensare che la rievocazione di quel concerto, a quarant’anni di distanza, sia una stanca ricorrenza per dirigenti e impiegati brizzolati, ormai dimentichi dei loro fervori giovanili: Woodstock non è stato il primo grande raduno rock, né il più affollato, non ospitò i Beatles e i Rolling Stones, e non si tenne nemmeno a Woodstock, bensì a Bethel, un villaggio di contadini e allevatori di maiali.
Ma allora, è stato un bluff?
I sessantenni accorsi sul mitico anfiteatro naturale nello stato di NY in occasione dell’anniversario, hanno abbandonato i toni di genitori ansiosi al tempo della crisi e hanno pronunciato parole commosse, nostalgiche : “I was stoned when I got here. The music was almost secondary to the experience of just being here”.
Non solo rock, dunque. Woodstock rimane nella memoria perché celebrò una gioventù nuova, ispirata dalla pace e dai sentimenti universali e mantenne fede al suo slogan: “Tre giorni di pace e musica”.
All’indomani degli attentati dei Kennedy e di Martin Luther King, delle barbarie di Charles Manson, delle stragi in Vietnam, tutto filò liscio. Nonostante l’assenza di servizi igienici, la pioggia insistente, lo scarso cibo, compensato da acidi in abbondanza, i ragazzi mantennero un decoro che colse di sorpresa l’establishment: Barnard Collier, inviato del New York Times, dovette lottare non poco con la redazione perché non fosse taciuto il carattere pacifico e ordinato della manifestazione.
E poi la musica, nutrimento della generazione hippie, che credeva nell’avvento dell’Era dell’Acquario e faceva uso di droghe per espandere la coscienza. La musica rispecchiava il desiderio di infrangere gli schemi, al pari della filosofia di Marcuse, delle poesie di Ferlinghetti e dei romanzi di Kerouac che tenevano banco a Berkley e nelle altre università americane. Proprio a metà anni ’60 iniziò ad assumere sonorità variegate e sorprendenti: dal country di Crosby, Stills e Nash al blues elettrico di Jimi Hendrix, dai suoni psichedelici dei Jefferson Airplane al rock degli Who. Tutti presenti su quel palco, a cavallo del Ferragosto ’69.
Ancora oggi Woodstock stimola le più accese diatribe tra chi lo vede come un curioso matrimonio tra cultura hippy e capitalismo (Woodstock Venture, la società costituita allora dai quattro organizzatori continua a garantire ai fondatori lauti guadagni) e chi ne celebra l’identità culturale, le icone, gli inni.
Fu con quel concerto che la gioventù del dopoguerra arrivò allo zenit autocelebrativo, preludio del declino : da quel momento lo "hippismo" divenne vulnerabile alle imitazioni e alle banalizzazioni che trasformarono lo spirito ribelle di una generazione in puro dato stilistico.
La questione se sia giusto celebrare il culto di Woodstock non si pone: va ricordato come ogni storico evento di costume, cioè come momento di sintesi di valori e culture. E a commemorarlo non devono essere solo i nostalgici sessantenni occhialuti che ebbero la fortuna di viverlo da contemporanei, ma tutti quelli che, a distanza di anni, si sono entusiasmati con le immagini sgranate eppur vivide dell’evento rock per eccellenza.

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