Per Predrag i viaggi si programmano in una manciata di minuti. È sempre stato abituato a prendere un aereo o un treno dalla sera alla mattina, sin dai tempi in cui faceva la spola tra Belgrado e Roma, per un piacevolissimo motivo: la fidanzata italiana.
“Dai, se vuoi andiamo a Belgrado, così faccio una sorpresa ai miei genitori”. Non li vede da mesi. Sei o sette. E siccome non ha perso l’istinto dell’esploratore, nemmeno alla soglia dei trent’anni, mi propone un viaggio a tappe. Da Vienna a Bratislava in treno. E poi in bus fino a Budapest, giusto il tempo di mettere la bandierina su un’altra sponda del Danubio. Infine il treno notturno per la capitale serba. Arrivo previsto alle 6.15 del giorno successivo. “Tanto mio padre si sveglia presto”.
Ci penso su. Il prezzo del viaggio fa impallidire un Milano-Roma in seconda classe Espresso … e poi non posso mica passare per pantofolaio al cospetto di un trentenne. Così accetto la proposta in un’altra manciata di minuti.
Il destino del viaggio si gioca su pochi giri di lancette. Alla stazione di Vienna Predrag sta per far saltare il calibratissimo ingranaggio di coincidenze che abbiamo architettato. Si presenta alla stazione appena in tempo per farsi rimproverare e trascinare di peso al binario 2. È l’unico brivido di una mattina che trascorre tranquilla sui lunghi rettilinei della grande pianura Pannonia arsi dal sole.
Chi ha visto in tv di sfuggita l’Ungheria degli anni Ottanta, intristita dal Comunismo, è felice di trovarla indaffarata e impaziente, orgogliosa dei fiumi di investimenti dall’estero. È bello vedere gli ungheresi seduti sul bus passare con spensieratezza accanto al cartello della frontiera con le stelle dell’Unione Europea. La dogana e il visto sul passaporto fan parte dei ricordi.
Budapest, però, soffre degli stessi peccati di gioventù della nuova Europa. Ha concentrato gli sforzi sul centro storico per renderlo appetibile ai gusti dei turisti occidentali, dimenticando i quartieri popolari dove la gente comune vive ancora in un fastidioso degrado. In centro hanno installato internet sul wi-fi gratuito del servizio Pannonia.com (che originalità …), ma in periferia decine di barboni si aggirano tra i cassonetti in cerca di cibo.
La capitale magiara si divide tra le due sponde del Danubio: Buda e Pest. La prima, cuore storico della città, sorge su una collina che le divinità degli Unni posero strategicamente a guardia del Danubio per renderla presidio ideale del popolo di Attila. La seconda, ben più popolosa, ospita buona parte delle vie di tendenza, tra cui una supponente “Fashion Street” che strizza l’occhio ai nostalgici di Via Montenapoleone.
Trascorso il pomeriggio nel festival del folkore ungherese, allestito nelle viuzze del centro, torniamo alla stazione. Nella biglietteria malconcia, simile ai vecchi saloon western, gli impiegati compilano ancora i biglietti a mano, con carta copiativa e penna biro vecchio stile, in onore al celebre inventore che nacque da queste parti.
Sul treno Predrag inizia a riprendere confidenza con la sua terra. Entrano nella carrozza due distinti ragazzi serbi, appassionati di vecchi fumetti cult e dalla sciolta parlata inglese. Vengono da Amsterdam e tornano a casa per le vacanze. Passano al serbo quando il sonno incombente rende difficile esprimersi nella lingua straniera. Snocciolano discorsi incomprensibili da cui riesco ad estrarre solo qualche frammento: Kosovo, Milosevic, Unione Europea. Facile intuire il senso delle loro parole. A Predrag e agli altri non va proprio giù l’isolamento in cui la loro nazione è finita dopo la guerra del ’99. Hanno una gran voglia di entrare nel circolo dell’Europa che conta ma qualche scheletro nell’armadio e questioni geopolitiche glielo impediscono. I ragionamenti si fanno più tesi quando, alla frontiera tra Ungheria e Serbia, mi basta mostrare il passaporto per ricevere il timbro del visto d’ingresso mentre loro, cittadini extra-EU, subiscono lo smacco di essere controllati dalla polizia ungherese in contatto telefonico con l’Interpol.
Il giorno arriva a Belgrado. L’aria pungente del mattino si stempera con i primi raggi di sole che svelano i segni delle guerre. Alcuni palazzi in centro, un tempo sedi di ministeri e accademie militari, sono ancora sventrati. Le voragini dei palazzi di Milosevic mi scuotono. Vedere dal vivo quegli spaventosi crateri è ben altra cosa rispetto ad osservare le immagini dei bombardamenti da casa. Per i belgradesi, però, sono solo elementi del paesaggio urbano, innocue rovine storiche a cui si sono abituati. Il bus attraversa Belgrado, prima nel centro, dove nove anni fa due milioni di persone, tra cui Predrag e i suoi amici, rovesciarono Milosevic, poi nei sobborghi, dove sorgono gli stadi della Stella Rossa (il mitico Maracàna) e del Partizan, un tempo infuocati catini delle sfide di Coppa dei Campioni, oggi relitti fatiscenti della gloria passata. Saliamo su una collina costellata di piccole ville monofamiliari. Qui abita la piccola borghesia. Il papà di Predrag, Danilo Krstic, sta innaffiando i fiori sul terrazzo in pantaloncini. “Tatà” gli sussurra il mio compagno di viaggio, con voce frenata dall’emozione. Il padre lancia uno sguardo sospettoso verso la strada e ricambia con un timido “Pedja”. Sembra corrucciato, ma sono scherzi della gioia: “Fa sempre così – mi tranquillizza Predrag - Nasconde le emozioni ma dentro di sé è felice”.
La mamma di Predrag, Dragica, non è in casa. Lavora nel Kosovo settentrionale, a maggioranza serba. Da pochi mesi si è trasferita in un laboratorio di microbiologia. Il primo pensiero del signor Danilo va a lei: “Dobbiamo assolutamente chiamarla”. Come consuetudine dei Krstic, tutto si decide in una manciata di minuti: rapido giro di telefonate tra Belgrado e il Kosovo e la signora Dragica si mette immediatamente sulla strada del ritorno. Intanto Tatà Danilo si ispira alla parabola del Figliol Prodigo e scongela la deliziosa carne di cervo che conserva per le occasioni importanti.
Sono da poco passate le 2 del pomeriggio quando la signora Dragica torna a casa. “Madre non ci crede ancora che sono arrivato” dice in un italiano un pò stentato Predrag, emozionato, prestando la spalla all’ennesima pacca della signora incredula.
Si siedono sul divano e si tuffano nei ricordi di famiglia. Dagli album fotografici escono i pettorali virili di Predrag tredicenne in posa da culturista, i basettoni di un giovane Danilo, gli occhi vispi del fratello Nenad, talento dell’animazione, in trasferta in Ungheria.
Le due giornate in trasferta serba filano via veloci come le ruote della Renault Clio dei Krstic lungo le strade di Belgrado: dalle spiagge lungo la Sava al Monte Avala, dal castello medievale che sorveglia la città ai battelli sul Danubio, dove si raduna il tifo tennistico per l’idolo della nazione, Nole Djokovic.
Lunedì mattina ci attende la partenza e una nuova sorpresa: Nenad è tornato dal lago Balaton, carico di valigie e di idee da concretizzare nei suoi disegni. Ci incontriamo davanti la stazione. Chi è appena sceso dal treno e chi sta per salirci. Predrag mi incita a recitare i motti che ho imparato con i suoi amici e insieme insceniamo il famoso spot di Mancini e Mihajlovic che esaltano la “migliore birra” nazionale -“Pils stvarno najbolje!”- per convincere il fratellino che due giorni ad insegnarmi il serbo non sono passati invano.
Il nostro treno sta per partire. Vienna ci attende. Il ricongiungimento familiare dura il tempo di qualche confidenza sussurrata e di rapidi flash fotografici. Una manciata di minuti in tutto. Si fa così a casa Krstic, no?
venerdì 28 agosto 2009
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
grande Ale! bel racconto! viene voglia di partire!
RispondiEliminabuon divertimento a Viennae buae mangiate di torte sacher! aufiedersen (o come cavolo si scrive)