venerdì 31 luglio 2009

Il Bianco e il Nero

«A Paterson questo è il modo in cui vanno le cose/se sei negro è meglio che non ti faccia nemmeno vedere per strada o ti incastrano», scriveva Bob Dylan nel ' 75 in Hurricane, la canzone di protesta dedicata al pugile nero Rubin «Hurricane» Carter, condannato ingiustamente per un triplice omicidio: 34 anni più tardi, nell'America di Barack Obama, la pelle nera continua ad essere un handicap.
Pochi giorni fa il celebre Professore nero di Harvard Henry Louis Gates prende a spallate la porta di casa sua, per via della serratura difettosa. Una donna insospettita chiama la Polizia e il poliziotto bianco James Crowley lo arresta. La storia si chiuderebbe qui come un fastidioso equivoco se non fosse per due aggettivi cromatici di troppo. Nero e bianco.
Questa vicenda a' la "Missisippi Burning" edulcorato mostra un’America ancora afflitta dalle ferite del suo passato razzista.
Nessuno dei protagonisti puo’ dirsi al riparo da critiche.
Sul poliziotto Crowley non aleggia solo l’accusa di non guardare la tv pubblica per le élite intellettuali PBS, di cui il Prof. Gates e’una conosciutissima star ma anche quella ben piu’ grave di aver usato le maniere forti sotto l’impulso del pregiudizio razziale. Se fosse stato un uomo bianco ad entrare in casa sua in maniera non ortodossa, probabilmente si sarebbe limitato ad un semplice controllo dei documenti.
Proprio questo il celebre studioso Gates ha rinfacciato all’agente fino a sbottare in un poco elegante «You don' t know who you’re messing with!» che ricorda l' italico «Lei non sa chi sono io». Caso emblematico di ragione tendente al torto.
E’ stato il presidente Obama, pero’, ad elevare una notizia di cronaca a caso mediatico tale da suscitare un dibattito pubblico. L’improperio rivolto al poliziotto (“Stupido”) ha destato scalpore per aver infranto i suoi garbati standard comunicativi innescando riflessioni su “discriminazione al contrario”, “inimicizia verso la middle class bianca” alla vigilia di dolorose riforme sociali e "discredito verso la polizia" che negli Stati Uniti gode di uno status di intoccabilita’.
Di storie sfondo razziale sono pieni libri e film americani, da Harry Callaghan, il bullo col distintivo della fortunata serie con Clint Eastwood al piedipiatti Gene Hackman in "Il braccio violento della legge", sino a "Los Angeles nera" di James Ellroy, il poliziotto che disprezza i neri.
L’America manichea che ama distinguere tra buon esempio ed errore biasimevole ha in realta’ un immaginario controverso e travagliato alle sue spalle. E la vicenda di Gates conferma che i meccanismi istintivi non sono ancora stati completamente disciplinati dalla riflessione.
Consapevoli di questo il Presidente, il Professore e il Poliziotto si sono ritrovati oggi per prendere una birra e cercare di dare un segnale: il popolo americano ha bisogno di vedere una linea di demarcazione netta tra Bene e Male, Bianco e Nero. Ma qui la razza non c’entra.

giovedì 30 luglio 2009

Freakonomics

Guardate i conti trimestrali di Goldman-Sachs: tre miliardi di Dollari di profitti.
Penserete fiduciosi :"Siamo fuori dalla crisi". Forse.
Ma andate a fondo e scoprirete che qualcuno, crisi o non crisi, ha ancora il vizietto di far soldi con strani magheggi.

To make or to manage.

Ho scoperto perche’ il mio capo odia cosi’ tanto i meeting. Si chiama Frank Bartels, e' originario del Ghana e affermato accademico. Sette anni fa sceglie di entrare nelle UN, dove gli viene assegnato un incarico di responsabilità che lo costringe spesso a meeting fiume e riunioni plenarie.
Basta gettare un occhio sulla sua agenda in cuoio per intuire, tra scarabocchi, numeri obliqui e schemi pedestri, che le sue ore d’ufficio siano un continuo andirivieni dal suo ufficio. E mi stupisco di come possa conservare un’invidiabile cordialità, solo a tratti rotta da smorfie bonarie e versi che ricordano l’impatto di una pallina da tennis sulla racchetta.
Come racconta la rubrica Freakonomics sul NYTimes, ci sono due tipi di “time schedule”: quella del “manager”e quella del “maker”.
Il primo e’ l’uomo di potere, che dopo incarichi specialistici assurge ai piu’ alti livelli della gerarchia. Non ricorda nemmeno i rudimenti tecnici del mestiere perche’, passato a gestire persone, non ha piu’ bisogno di conoscere in dettaglio le aggregazioni di acidi o i tassi spot a tre mesi. Ha un altro lessico, fatto di “coinvolgimento”, “spirito di gruppo”, “incentivi”, “produttivita’”, “soddisfazione”. Il suo orario e’ nella tradizionale agenda, scandito da appuntamenti di un’ora. Un buco a pranzo viene subito riempito da una colazione di lavoro con un collega. Basta un appunto e via.
Il “maker” e’ lo scrittore, il creativo, il free-lance che ha bisogno di qualche ora per pensare l’idea e mezza giornata per realizzarla. E’ terrorizzato dall’idea che un meeting, o addirittura un caffe’ con un collega possa spaccargli la mattinata in due parti. Diventa frenetico. E improduttivo.
Lo tormenta il conflitto tra ragione, che gli impone di accettare un colloquio con i suoi colleghi, e istinto creativo, che lo ammonisce di non disperdere il suo tempo in incontri.
Mr. Bartels, come avrete capito, ha un animo da maker e una responsabilta’ da manager. Molte volte si trova a litigare con se stesso perche’ non sa quale delle sue identita’ far prevalere: riunione con quell’incompetente stagista italiano alle 2 o lettura del rapporto mensile dell’Economist Intelligence Unit?
Qualunque cosa scelga, si sentira’ in colpa. Nel primo caso rimpiangera’ di non aver dato al ragazzo la chance di dire la prima cosa intelligente in 3 settimane. Nel secondo caso, avra’ timore di non poter piu’ sapere la crescita del settore tessile in Nicaragua.

A pensarci bene, al conflitto di identita’ non e’ estraneo nemmeno un comune stagista. Ora mi libero dei panni di “maker” del blog e indosso quelli di “manager” di me stesso, cioe' mi metto a lavorare. Altrimenti cosa racconto a Mr Bartels alle 2?

mercoledì 29 luglio 2009

Palla a spicchi

Mr.Markus Bogner, chief di HR, per sua ammissione “ha preso piu’ ferri con le donne che con i tiri da tre”. E' lui il signore di 2 metri sulla cinquantina che resiste agli assalti del colesterolo con le discese coast-to-coast sul campo di basket.
Markus mi presenta i suoi compagni di squadra.
Ferenc fa di nome come il suo connazionale nonché mitico centravanti del Real Madrid anni ’50 Puskas, ma alla palla di cuoio bianca e nera ha preferito quella a spicchi. Fa il direttore di un’unità al 13° piano dell’edificio D. Scorazza per il campo con l’agilità del giovane Mike D’Antoni, cui somiglia in modo imbarazzante per via del” baffo western”. Duetta spesso con la figlia Judith, che dal padre ha ereditato la passione più del talento, e ogni tanto si incarica di placare l’animo collerico del giovane francese Mathieu, il più dotato di tecnica e agonismo.
Olaf, invece, se la prende se gli dai del “russo”. Ha gli occhi da lupo della steppa come molti figli di Madre Russia, la tempra dell’ufficiale dell’Armata Rossa e tiene i calzini bianchi alti fino a meta' gamba, come Belov alle Olimpiadi vinte dall’URSS. Eppure ha sempre rinnegato il Cremlino, anche quando da giovane cestista della Lituania era costretto a rappresentare la corazzata sovietica.
Le partite filano via veloci come le gambe dei miei compagni. Ci entusiasmiamo per i tiri dalla distanza, lottiamo sui palloni vaganti con la voracita' dei professionisti. Il sudore ci rende ebbri di vitalita'.
Ho dimenticato le difficolta' del calcio. A mio favore gioca l'eta' ma per fiato e canestri a segno loro sono decisamente superiori.
Per il resto siamo alla pari: se sbagli il tiro libero, che tu sia Senior Chief o stagista alla terza settimanama, il “fanculo” gratuito non te lo nega nessuno.

lunedì 27 luglio 2009

La coscienza di Auro

E’ finito il Tour. “Vive le Tour!” si dirà al termine di un’edizione ravvivata dal circo mediatico attorno a Lance Armstrong e dallo strapotere atletico e tattico di Alberto Contador.
Per noi Italiani è stata una corsa in tono minore, non tanto per i risultati dei nostri, quanto per il commento bolso e stantio dell’inetto Auro. Il Bulbarelli è lo stereotipo dell’ignavo, dall’abbigliamento impiegatizio e dal sapere pedissequo. Perfetta iconografia dello Zeno di Svevo.
Il Bulbarellismo, come l’ha definito Aldo Grasso, e’ il concetto dell’inettitudine che trascende il corpo e il nome. E’ un “topos” che trova una declinazione appropriata in ogni sfaccettatura dell’umanità: Bulbarelli lo incarna nel giornalismo sportivo, Marzullo nell'intervista, Gasparri nella politica e cosi' via.
Il comune carattere e’ l’ “horror vacui” intellettuale che restituiscono allo spettatore.
Auro, il cui nome non sfigurerebbe per un omogeneizzato o un ghiacciolo, ha rispettato tutte le tappe di avvicinamento al suo karma: figlio di un collaboratore del Giro d’Italia, sin da giovane mostra interesse per la cultura “triviale” (nel senso di “comune” e di “fintamente enciclopedico, tipico del campione di Trivial Pursuit”) ed esordisce in tv nel grigio anonimato di un quiz televisivo condotto da Mike Bongiorno. Da lì inizia inesorabile l’ascesa (o se volete, declino) con le stanche telecronache notturne del deprimente biliardo (non me ne vogliano gli amanti delle 15 palle) che lo proiettano verso il ciclismo.
Con Davide Cassani ha reinventato il concetto di coppia grottesca come Lemmon e Matthau hanno riscritto i canoni di quella comica: leggendari sono la definizione di “lavagnaio” affibbiata al motociclista che espone la lavagna del vantaggio, l’accurata analisi di maltodestrine ed ematocrito, i soliloqui didascalici sui vini del Borgognone.
Il ciclismo eroico ha il suggello dell'incipit del radiocronista Mario Ferretti: «Un uomo solo è al comando, la sua maglia biancoazzurra, il suo nome Fausto Coppi».
Quello del boom economico ha la narrazione acuta del “Processo alla tappa” di Sergio Zavoli.
La deriva dello sport a pedali arriva con il “Tenta la figa … pardon la fuga” del pur bravo mestierante De Zan, che solo Bulbarelli (chi altrimenti!) ha saputo superare descrivendo i "tratti semantici”, e non somatici, di un corridore in maglia gialla.

domenica 26 luglio 2009

Il sano catastrofismo



Credo che George Marschack, in un articolo del ’45 citato dall’Economist della scorsa settimana, abbia colto lo struggimento dei macroeconomisti.

“La sismologia fa progressi attraverso strumenti più avanzati, teorie più precise e più frequenti rilevazioni di terremoti. Sono i terremoti a fare gran parte del lavoro dei sismologi.
I macroeconomisti, invece, sono privati dei terremoti per interi quarti di secolo”.

sabato 25 luglio 2009

Affama la bestia, quando è in vacanza

Sarà per l’aria disimpegnata, sarà perché molti sono in vacanza, la prima buona notizia è che non se ne parla. In Italia le riforme utili vanno quasi tenute al coperto, negli antri più impenetrabili delle Commissioni parlamentari e dei Ministeri.
Ieri il Ministro Gelmini ha annunciato un provvedimento apparentemente secondario che potrebbe aprire una fase nuova dell’università italiana: allocare il 7% del fondo ordinario di finanziamento delle università, cioè 525 milioni di euro, in base alla qualità della ricerca (per due terzi) e della didattica (un terzo). D’accordo, sono spiccioli, ma è l’intenzione quella che conta, cioè incentivare le università a gestire meglio le risorse.
Una “riforma” di tagli come quella dello scorso ottobre si è man mano arricchita di sfaccettature interessanti come la nuova norma del concorso che impone il sorteggio delle commissioni esaminatrici per evitare inciuci, fino a questo primo accenno di incentivo.
Intendiamoci, non è con queste norme marginali che si cambia l’università italiana. I problemi sono enormi e gravosi per le tasche di tutti: altissimi costi per studente (più alti di Francia e Gran Bretagna), 80% dei fondi destinati a retribuzioni dei docenti (in base all’anzianità, per lo più) e una valanga di debiti per finanziare spese correnti che minano la sopravvivenza di molti atenei.
Ben più desolante è però l’incapacità dell’università di proporsi come timone della società, assecondandone, anzi, le iniquità. Il 24% degli studenti universitari proviene dal 20% più ricco delle famiglie; solo l' 8% proviene dal 20% più povero. Nel Sud la disparità è ancora più ampia: 28% contro 4%. Le professioni di oggi ricalcano l’impronta nepotistica delle corporazioni medievali: il 44% degli architetti è figlio di architetti, il 42% di avvocati e notai è figlio di avvocati e notai, e lo stesso per ingegneri, farmacisti e medici. Siamo sicuri che l’università non abbia nulla da rimproverarsi ?
Negli ultimi 40 anni l’Università non è stata “affamata”. Anzi, le è stato concesso uno status di intoccabilità in cui hanno proliferato cupole di baronati e direttòri di sindacati. Quel che ci ritroviamo oggi è un parcheggio di cervelli in atrofia, costoso e molto autoreferenziale che per giunta plagia molti studenti con lo slogan “più risorse, più qualità”.
Aspettiamoci un altro provvedimento a Ferragosto, quando il riottoso popolo dell’Onda sarà nel posto che più gli compete. Al mare.

venerdì 24 luglio 2009

Lunch-swimming


“Ehy Friedrich. Do you usually swim in the rivers?”
Avete un’idea per la pausa pranzo? A sentire il mio amico austriaco non c’e’ nulla di più divertente che fare un tuffo nel Danubio.
Cinque amici da varie parti d’Europa, uno zainetto ciascuno, un panino trangugiato in fretta, e via verso la riva!
Johann, lo svedese, non e’ troppo entusiasta dell’idea: lui sui fiumi ci corre veloce coi pattini d’inverno. Jorge, lo spagnolo, pur non sapendo se l’acqua sia dolce o salata, si avventura in pronostici azzardati sulla sua temperatura. Il francese e l’italiano, invece, finiscono ben presto per parlare delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, cioe’ di Zidane e Materazzi.
Arriviamo sulla sponda, un piccolo giardino di gigli ci accoglie. Scopro che in molti hanno avuto la stessa idea di Friedrich. Qui il bagno nel fiume e’ un rituale di mezza estate, un po’ la nostra gita fuoriporta a Pasquetta, ma senza le bizzarrie climatiche primaverili.
Il nordico, fedele alla fama di “diligente” porta con sé un vestito di ricambio, mentre il francese si avvolge alla vita un verecondo asciugamano per indossare il costumino modello “Saint Tropez”. Dell’italiano assalito dai dubbi "dimensionali" di Alvaro Vitali al cospetto dello spagnolo e’ meglio non parlare …
Ci tuffiamo.

L’acqua dolce ti accarezza la schiena con una sadica e gelida lentezza, ti presenta i suoi inquilini, i banchi di pesci, qualche cigno particolarmente confidente negli uomini e un cagnolino al seguito di una madama cinquantenne.
Il fiume ti restituisce un senso di appartenenza alla natura che hai perso dopo aver abbandonato il ventre di tua mamma. Ti regala una liquida piacevolezza che pensi possa durare per sempre.

“Guys! We got the meeting with Mr. Bartels at 2! ”

In pochi secondi gli scalmanati “viveur” tornano diligenti stagisti, giusto il tempo di indossare alla bene e meglio un paio di calzini mordicchiato dal barboncino e riattaccare il tesserino sulla camicia.
Metamorfosi quasi completata se non per qualche umido alone sospetto sui pantaloni che il caldo Fohn provvederà ad asciugare.

LottizzeRAI

Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato la lettera inedita del’64 di Indro Montanelli a Pietro Nenni, segretario del PSI, sulle nomine RAI.
Il decano dei giornalisti italiani elencava senza giri di parole i papabili al ruolo di Presidente della RAI e stroncava molti altri, inclusi esimi studiosi del rango di Carlo Bo. A suo dire, un presidente amante delle raffinate letture, di scarso polso, e spocchiosamente distaccato da uno strumento nuovo e innovativo come la TV (se l’avesse letto Pasolini …) avrebbero impedito alla RAI dell’epoca, in gran parte sotto l’abbraccio narcotizzante della DC, di essere guida vitale di una società in crescita. Molto meglio sarebbe stato affidarla ad un manager dal minore fervore intellettuale ma con maggiore capacità organizzativa.
La lettera di Montanelli mi ha fatto venire in mente 2 ovvietà e una leggenda.
Prima ovvieta'. La storia della RAI lottizzata inizia ben prima di quanto Di Pietro denunci. Se nel 1964 il giornalista di punta del Corriere interpellava il capo di un partito con il 13% dei voti , allora c’erano almeno altri due partiti (PCI e DC) che insieme al socialista si sarebbero divisi le poltrone della TV. E’ un caso che le reti RAI siano diventate 3 nel giro di 15 anni?
Seconda ovvieta'. Se i partiti hanno iniziato a distribuire i posti in RAI in base alle tessere fin dagli albori, allora capiamo come la TV di stato sia arrivata a contare ben 13 mila dipendenti (compresi quelli a tempo determinato) nel 2005. Contro i 6.500 dipendenti di Mediaset, la metà. Ma senza avere il doppio degli ascolti e del fatturato rispetto alla concorrenza.
La leggenda. L' ultimo re d' Egitto si chiamava Faruk. Era un reuccio da nulla dedito soltanto alla bella vita. Amava soprattutto il gioco. E al gioco, il poker, voleva sempre vincere, in questo modo: aspettava di vedere le carte degli altri, e poi lui dichiarava una mano superiore senza farla vedere. «Parola di re», diceva. Gli altri giocatori si sottomettevano; dopotutto lui era un re, e loro erano lusingati di essere ammessi al suo tavolo.
Berlusconi definisce una «doppia menzogna» sostenere che in Italia lui monopolizza stampa e tv. Perché, asserisce, la stampa scritta è «all' 85 per cento di sinistra contro i moderati», e le reti Rai «sono molto libere e il 75 per cento dei giornalisti è di sinistra». Ma qui Berlusconi commette l' errore di scoprire una carta (su cinque). Se ci dà delle percentuali (la carta che scopre) allora quelle percentuali le deve comprovare.
Ma l’Italia è un Paese in cui non si guarda nel mazzo del re, e tutti sono disposti a perdere pur di ottenerne i favori.
Per quanto potremo andare avanti prendendo tutto per buono, «parola di re»? Probabilmente fin quando non avremo una seria legge di riassetto delle TV. Quella sul conflitto di interesse non serve a nulla se continua a consentire ad un solo personaggio di avere di fatto il controllo della tv di stato e ai partiti la certezza di piazzare i non eletti e i loro amici di sezioni negli uffici di Viale Mazzini.
Tempo fa Giovanni Sartori lanciò una proposta che provocò lo stesso scalpore di un singhiozzo in un Maracanà gremito in ogni ordine di posto.
Un servizio pubblico blindato da invasioni politiche come la Bbc inglese, che lascia interamente la pubblicità alla televisione commerciale, che a sua volta paga le sue concessioni trasferendo alla tv pubblica metà dei suoi profitti pubblicitari. Oppure una TV di stato sul modello francese, sottratta alla pappatoia dei partiti da una autorità amministrativa indipendente, il Conseil Supérieur de l' Audiovisuel e di proprietà dei privati con quote bassissime.
Il motivo per cui queste proposte caddero nel silenzio è lo stesso per cui, nel ’64, come Presidente della RAI non fu scelto né un manager proposto da Montanelli né un intellettuale caro all’intellighenzia, bensì Pietro Quaroni, diplomatico e uomo fidato dei partiti.
Finché sono loro a comandare in RAI, il re avrà vita facile a poker.

mercoledì 22 luglio 2009

L'alcol, Letizia e la sindrome del Divin Codino

Comincio a sospettare che la Moratti passerà alla storia per l’ordinanza sull’alcol più che per l’Expo. Un po’ come Roberto Baggio resterà nella memoria per il rigore sbagliato a Pasadena che per il Pallone d’Oro.
La Letizia di Milano oggi si crogiolava ascoltando da un Red Ronnie più fulvo che mai i lusinghieri sondaggi pubblicati dalle maggiori testate nazionali. Compresa la tanto bistrattata e antigovernativa “Repubblica”.
Mettiamo le cose in chiaro. Il problema della diffusione degli alcolici tra i giovani è reale. Se non ci credete fate un giro su internet e troverete un rapporto Istat 2009 che descrive dettagliatamente l’aumento di consumo di alcol tra gli adolescenti.
Il problema è capire quale sia lo scopo dell’ordinanza.
Suscitare un dibattito sull’uso di alcol tra i giovani, come dicono alcuni?
Se bisogna discutere su come allontanare un ragazzino dal bicchiere facile, l'ordinanza del sindaco ha meno poteri del dialogo quotidiano dei genitori con il figlio alticcio.
Fissare dei principi generali, regole di convivenza civile?
Contro questa idea si schierano quelli del “se si proibisce, si incentiva la trasgressione”. È un aspetto che esiste ma non mi pare che là fuori sia pieno di ragazzi che guidano la macchina a sedici anni e senza patente per il gusto della trasgressione. E inoltre mettere delle regole precise ma trasgredibili non è un buona giustificazione per non averne. Piuttosto, proprio perché le norme siano generali, facciamo una legge che vieti il consumo a tutti gli under sedici, non solo ai giovani milanesi.
Intraprendere la politica del pugno di ferro?
In Gran Bretagna, il divieto di vendere alcolici ai minorenni esiste davvero, nel senso che ogni cassiera del supermercato si prende la briga di chiedere i documenti all'imberbe anche a Natale, con Ms Smith in fila che sbotta per tornare a casa a fare l'albero.
Non possiamo obiettare più di tanto che al di là della Manica il divieto di vendita non equivalga a quello di consumo, e il limite sia superiore di due anni rispetto all’Italia. Finiremmo per descrivere i comportamenti degli adolescenti in maniera deterministica. E invece i dati statistici evidenziano che nel Regno Unito, a parità di regole, il numero di giovani bevitori e la morte per abuso di alcol è aumentata dal '91 a oggi. La relazione “regola più severa implica riduzione del comportamento dannoso” non regge.
E’ in atto un cambiamento nei costumi degli adolescenti a cui la risposta mediante la sola legge non può che fare il solletico. Anzi, far scoppiare dalle risate, se si parla di alcol.
In definitiva, siamo d’accordo che questa ordinanza sia utile come l’ultimo giro di walzer sul Titanic ma non confondiamola con una regola totalmente insensata.
Piuttosto, come si farà rispettare la legge?
Magari pattuglie di vigili urbani si apposteranno davanti ai locali come di fronte ai luoghi del malaffare colombiani e qualche celerino travestito da rastone si metterà a offrire del fumo con una mano e a chiedere i documenti con l’altra.
O forse ci sarà una di migrazione di emo e punkabbestia verso Cinisello Balsamo e Cernusco sul Naviglio (mica Barcellona!) per qualche settimana, giusto il tempo che Studio Aperto apra con il caso del giovane frikkettone multato con il whisky in mano.
Poi tutto tornerà come prima. Avremo archiviato il dibattito pubblico senza aver mutato il comportamento dei giovani alcolisti.
Intanto però la Moratti, quando sarà rieletta, ci penserà a quell'ordinanza e stapperà una bottiglia di champagne.
Tanto lei i sedici anni gli ha passati da un pezzo.

Aridatece la Bicamerale!

In fondo ad ogni credenza c'è una verità. In fondo ad ogni salotto c'è una credenza. Questo dimostra inconfutabilmente che i salotti esistono. Ma non che le credenze siano verità.
Dopo la leggenda sull’intelligenza politica di D’Alema sta crollando anche il mito del tempismo mediatico di Berlusconi.
La battuta del “santo” era geniale due mesi fa, appena dopo il caso Noemi, perché avrebbe colto alla sprovvista tutti i detrattori e probabilmente disinnescato la campagna mediatica di “Repubblica”.
Ora invece suona come un’ammissione di fatto della sua “allegria sessuale” che per giunta coprirà la notizia, ben più importante, dell’inizio del cantiere Brebemi.
Aridatece la Bicamerale!
Almeno a quei tempi pensavamo ancora che uno fosse intelligente e l’altro scaltro.

martedì 21 luglio 2009

Waterloo

La scorsa settimana, il senatore Repubblicano Jim DeMint ha chiarito i motivi per cui gli avversari della riforma del sistema sanitario stanno lottando così duramente.

"If we're able to stop Obama on this, it will be his Waterloo. It will break him."

Ecco la risposta di Obama.

"Think about that. This isn't about me. This isn't about politics. This is about a health care system that is breaking America's families, breaking America's businesses and breaking America's economy. And we can't afford the politics of delay and defeat when it comes to health care. Not this time, not now. There are too many lives and livelihoods at stake."


lunedì 20 luglio 2009

Come la mettiamo con Jude?

Si sono scomodati luminari della medicina legale e dell’informatica per stabilire con certezza che l’arzillo 67enne McCartney sia ancora vivo. Ma non sono riusciti a far quadrare le dimensioni del cranio e le arcate dentarie del Macca vivente con quello ipoteticamente defunto nel 1966.
Boh, forse Paul è ricorso troppo spesso alle cure del dentista e del chirurgo plastico per farsi limare qualche cartilagine qua e là ed è diventato irriconoscibile pure per gli scienziati capaci di smascherare il mostro di Firenze e l’attentatore del Papa …
… Ah no? Anche quelli sono rimasti casi irrisolti? …
Ragazzi, non serve che vi inventiate uno scanner 5D per l’analisi craniometrica o un analizzatore di ponti mandibolari. Basta sentire qualche canzone del "fu" Paul per capire se un sosia qualsiasi potesse realizzare certi capolavori …

Non c'è più religione

Sapere di Bruno Vespa, sacerdote della medietas giornalistica, condannato per diffamazione, fa lo stesso effetto di Giovanardi indagato per spaccio o della Binetti accusata di induzione alla prostituzione.

Tears of Cronkite, the man on the Moon

A cavallo del fine settimana l’America ha avuto per ben due volte l’occasione di voltarsi indietro a contemplare il passato: la celebrazione del mitico “Moon landing” che squassò quarant’anni fa anche le notti di noi italiani al grido di “Ha toccato! Noo, non ha toccato! Ora sì che ha toccato!” e la morte del novantunenne anchorman Walter Cronkite, volto storico della CBS, che se n’è andato nell’anniversario dell’evento raccontato da cronista di punta.
Per l’occasione ho visto un documentario di Ron Howard, “In the Shadow of the Moon”, la cronaca enfatica di “un’epica impresa”, tra testimonianze dei protagonisti e filmati spettacolari al limite del fotomontaggio da studio: dallo storico discorso di Kennedy al Congresso alla sigla delle cronache da Cape Kennedy (ironia della storia), preceduta dallo spot Kellogg’s. Culmine ideale e abisso commerciale di un evento che ha alimentato esaltazione di tanti e scetticismo di alcuni.
Intanto rendiamo onore a Cronkite, a cui il presidente Johnson diede la palma del “più influente personaggio d’America” e speriamo che prima di arrivare lassù, faccia una piccola sosta sul nostro satellite.

Il giardino delle impressioni

A queste latitudini ogni bambino inizia a familiarizzare molto presto con l’idea di giardino: i suoi antenati hanno scelto un nome degno dei racconti di Lewis Carroll, Kindergarten, il “giardino dei fanciulli”, per designare la scuola dell’infanzia.
Di domenica i tram del centro viaggiano al minimo carico e le serrande dei negozi sono tutte abbassate in pieno stile sciopero generale. L’Augarten, una mezza dozzina di verde in città con alberi potati in modo così accurato da sembrare frontespizi di palazzi, accoglie tutta la cittadinanza in cerca di relax e si trasforma per l’occasione nella fiera del libro e nel festival della bossanova.
Frotte di persone stanno sdraiate sull’erba come se davanti a loro ci fosse, al posto del ciottolato dove corrono i podisti, la battigia di Rimini, con tanto di sdraio e pappagalli a tampinare le ragazze scese dal freddo Nord.
Solo che in questo caso non ci sono i virgulti mediterranei in posa bensì biondoni un po’ macilenti che si dilettano con le bocce e il badminton, sport degni della casa del popolo di Modigliana.
Ma alle donne va bene anche così. Si accontentano di sbirciare di tanto in tanto qualche pettorale metalmeccanico tra le pagine dell’immancabile libro di Nick Hornby.
In queste giornate si realizzano miracoli altrimenti impossibili come rimanere illesi alle sassate scagliate da quei quattro scalmanati che giocano sempre a ridosso degli instancabili patiti dell’abbronzatura.
Trascorri il tempo a chiederti come mai appena il sole scompare tra le nuvole si alza una brezza tagliente che spariglia gli steli ma lascia impassibili i tuoi vicini. Per non destare sospetti sulla tua origine resti a petto nudo per stimolare l’ultima dose di melatonina della giornata.
Alle sette della sera non c’è più storia. Il sole comincia ad eclissarsi dietro il torrione a guardia del popolo del “fuoriporta” . Gli uccelli che vi si erano dati appuntamento come ad un aperitivo (qui il termine happy hour è una licenza per nostalgici in infradito …) iniziano a regalare evoluzioni simili a quelle di pattuglie acrobatiche.
Tutti smobilitano i loro mini-accampamenti e si muovono con ordine verso la città. A terra non un c’è traccia della loro permanenza, se non qualche gentile cadeau offerto ai pennuti come ricompensa dello spettacolo.

domenica 19 luglio 2009

Annuncio ai naviganti

Messaggio rivolto a tutti quelli che temevano di passare l’estate a sentir parlare di influenza suina, rivolta democratica in Iran, riforma delle pensioni e guerra in Afghanistan.
Tranquilli! Anche quest’estate potremo cazzeggiare con l’opposizione ai ferri corti e spuntati, la “nuova fiamma” degli spot, il presidente redento, e il calciatore che “vuole provare qualcosa di nuovo” (attento ai pusher... e ai procuratori!)

venerdì 17 luglio 2009

Ian e Miran

20 marzo 1994. Ore 19.00. Il TG3 sta mandando in onda le immagini di auto blindate che sfrecciano in mezzo alla polvere e carri armati che si fanno largo tra la folla. Sospetto che quei fotogrammi vengano dall’Africa. Poi il giornalista specifica. E’ la Somalia. Mai sentita prima.
Sento dire che una giornalista e’ stata uccisa. Si chiama Ilaria Alpi e con lei un uomo con la barba che fa le riprese di tutto quello che Ilaria racconta. Non capisco nient’altro se non l’angoscia dei giornalisti che hanno appena saputo della morte di una loro collega.

Ilaria Alpi e’ stata uccisa per aver saputo di uno strana collusione tra malavita locale e servizi segreti italiani che avevano favorito lo smaltimento di rifiuti tossici in Somalia.
A lei sono dedicati premi giornalistici, manifestazioni sportive e anche una discutibile fiction. E’ un esempio di incisività e coraggio, gli stessi valori che hanno animato Marcello Palmisano, ucciso nel ’95 sempre in Somalia, Maria Grazia Cutuli, assassinata in Afghanistan ed Enzo Baldoni, caduto in Iraq.
Miran Hrovatin, l’uomo con la barba, invece, e’una delle vittime anonime dell’informazione. Di lui ricordo solo la barba folta e la telecamera in una foto scattata ai tempi della guerra in Ex Jugoslavia.
A rinnovarmi la sua memoria oggi e’ stato suo figlio, Ian.

All’estero per attaccar bottone con gli italiani basta dire “Sei italiano?”. Sentirai sempre un sì e una proposta per mangiare assieme. Detto fatto.
Ian e il suo amico Michele lavorano come stagisti nel Dipartimento Anticrimine. Trattano roba seria: dal traffico d’armi a quello della droga. Ti elencano il giro d’affari di ‘Ndrangheta e Cosa Nostra come la classifica di Serie A. Un pranzo con loro non è distensivo come un aperitivo con un ricercatore di microeconomia.
Poi ad un tratto, tra le tante quisquilie che si dicono tra italiani all’estero salta fuori quella del cognome.
Quello di Ian non e’ italiano. Gli chiedo di ripeterlo perchè l’ho già sentito, ma non ricordo quando. Poi ricollego tutto a quella barba e a quella telecamera. E la sua risposta è sorprendente e agghiacciante al tempo stesso. “Sono il figlio”.
E’ scosso anche lui, non tanto per il ricordo del padre con cui è abituato a convivere da 15 anni ma perchè sono uno dei pochi a ricordarsi del cineoperatore Hrovatin. “Di solito solo gli adulti mi associano a mio padre, e questo mi ha aiutato ad inserirmi meglio tra i miei coetanei” mi sussurra mentre stringe con incertezza un anello al dito medio. Io provo pudore nel chiedergli del papà perso tragicamente, ma lui non ha difficoltà a raccontarmi i ricordi d’infanzia: il casco blu dell’ONU e i proiettili delle forze di sicurezza raccolti nei teatri di guerra e regalatigli dal coraggioso Miran. Cimeli che solleticavano la sua fantasia di bambino alle prese con i soldatini di latta sul tavolo di casa. Poi un primo incubo. La morte del papà di un suo compagno alle elementari. Anch’egli cineoperatore nei Balcani. Mai avrebbe pensato che pochi mesi dopo quella stessa sorte sarebbe toccata proprio a lui.
Gli chiedo del futuro, dei suoi sogni.
Ian risponde in modo forbito e diretto. Completerà il quinto anno dell’Accademia di scienze diplomatiche di Vienna l’anno prossimo. Non sa se tornerà nella sua Gorizia. Quello che gli importa è lavorare per gli altri.
Gli piace la storia e la politica internazionale, mi racconta entusiasta il rapporto molto stretto allacciato con i professori della sua università. Sfodera un senso dell’umorismo penetrante verso tutti, anche in inglese.
Negli occhi chiari ha un’assenza che ha colmato con coraggio e nel cuore una dignitosa magnanimità. Proprio come Miran.

giovedì 16 luglio 2009

Health scare



Da qualche settimana Barack Obama mi scrive.
Beh, sarebbe bello pensarlo aprire il suo McBookAir e digitare “Dear Alessandro…”
In realtà il presidente americano sta contattando tutti gli iscritti alla sua newsletter http://my.barackobama.com per sensibilizzarli sulla riforma epocale della sanità.
A tale scopo sta spadroneggiando sui media: posta annunci su Facebook e Twitter, tiene convegni sul tema in tutta America e addirittura promette incontri privati in cambio di contributi per sostenere la campagna informativa sulla nuova “Health-care bill”.
Perché tanto coinvolgimento? Domanda lecita per un italiano che non è abituato a sentir proporre, figuratevi realizzare, riforme radicali.
La risposta è semplice: la sanità americana va allo sfascio come le carrozze nei western con John Wayne.
Sebbene un sesto della ricchezza americana sia spesa nella sanità, la mortalità infantile, l’aspettativa di vita, e i tassi di sopravvivenza agli infarti sono peggiori della media OCSE. Tutto ciò porta la sanità americana al 37° posto mondiale. Noi italiani facciamo molto meglio, siamo nella Top 10.
Poi c’è l’aspetto economico. Metà della spesa sanitaria dipende dalle assicurazioni dei privati che sono un grande fardello per le imprese americane. Ricordate quante riunioni ha dovuto fare Marchionne per convincere i Tycoon di Chrysler ad abbassare i costi del lavoro?
E infine c’è la parte che sta più a cuore ad Obama. L’uguaglianza: in America 50 milioni di persone sono escluse integralmente dall’assistenza sanitaria. Un’intera Italia che quando ha l’influenza si prende le pasticche di lievito di birra.
Insomma, la riforma è doverosa. Lo vogliono gli anziani che sono la maggioranza dell’elettorato e sono spesso i più malati, lo vogliono le giovani generazioni che si troveranno a mantenere tra pochi anni un esercito di baby-boomer (noi li premiamo mandandoli in pensione a 58 anni, ma questo è un altro discorso…).
E allora chi è che rema contro? Gli stessi che 10 anni fa affossarono la riforma di Clinton: i medici, che secondo le bozze di riforma, non guadagnerebbero più in proporzione ai farmaci prescritti, e le compagnie assicurative, che sarebbero obbligate a contrarre polizze anche con i clienti poco graditi, i poveri e i vecchi.
Qui entra in scena la seconda campagna elettorale di Obama, a distanza di un anno da quella vera che l’ha portata alla Casa Bianca. Informazione a tappeto dell’opinione pubblica per contrastare le lobby che stanno spendendo una barca di soldi per “fare pressioni sui parlamentari e sui media”.
A chi gioca sporco, Obama risponde in guanti bianchi e sterili, come quelli di un medico, possibilmente non lobbista.

martedì 14 luglio 2009

International Fußball

“Are you ready for football match?”. Come rispondereste voi se la più sportiva delle scarpe che avete è una usuratissima Converse e l’unico pantaloncino resistente ad una minima torsione è lungo fino alla caviglia?
“yes, I’m ready”. Così ho risposto al mio amico Jorge che di calcio non farebbe a meno nemmeno sull’Artico.
E così è andata in scena la mia prima versione di International football, o se preferite Fußball, di quest’anno.
Due squadre da 8, noi per comodità (e mia somma vergogna) a petto nudo: i miei rotoli appassivano al cospetto delle carene di Heinz, Huber, e di Maurice (unico canadese nero che trova interessante la nobile arte della pedata). Ma ben presto mi sarei dovuto imbarazzare di ben altro: retropassaggi sbagliati, controlli accidentali, addirittura un tentativo di autorete.
E’ stato in quel momento che ho iniziato a giocare un altro sport. Il nascondino. Ogni onesto pivello è un campione di questa pratica che consiste in due mosse: passaggio al portiere e marcatura stretta sul più incapace della squadra avversaria.
Tutto perfetto sinché Johann mi chiede in cambio in porta. “Beh, hanno levato dal campo l’unico scarso ora domineranno”. E penso bene. Possesso, fraseggio, una goduria per l’unico italiano (buono) sul prato, Nico, romano e “bastard surfer”, come indica la sua maglia coatta.
Gli altri, quelli con addosso la maglia, non ci capiscono più niente. E proprio da uno degli insulsi lanci lunghi che segnano la sconfitta morale dei più deboli nasce la mia prodezza comica.
Uscita a vuoto.
Colpa del sole in faccia, del rimbalzo infido. Colpa mia, diamine. Nico ci resta un po’ male, mi fa lo sguardo di quando Totti sbaglia il cucchiaio. Ma gli altri, i carenati, mi incoraggiano. “It happens”. “Don’t worry”. Lo so che mentono spudoratamente ma apprezzo la loro gentile ipocrisia mitteleuropea.
Ci pensa Nico a tenere alto l’onore italiano. Si dimena, dribbla, dispensa assist e segna, segna come un disperato per cancellare le mie vergogne. Gli altri lo assecondano ma in surplasse, con garbo asburgico. E alla fine quando il sole sta tramontando, e io ho già due piedi arrostiti dalle scarpe scomode, si fermano all’instante, come redenti da Odino, si scambiano saluti e strette di mano. Io rimango sorpreso. Nico invece è già schizzato sulla fascia per segnare l’ennesimo gol.
Aveva ragione Churchill: «Gli italiani affrontano le partite di calcio come se fossero guerre e affrontano le guerre come se fossero partite di calcio.»

lunedì 13 luglio 2009

(Pen)ultime dal PD.

Roberto Calderoli. «La questione morale nel Pd? Non si può criminalizzare un partito per questo fatto. Anche Gesù sbagliò a scegliere uno dei suoi apostoli»
Beppe Grillo: «Mi candiderò alla segreteria del PD»
Cos’hanno in comune le due affermazioni? Il numero di reazioni (di membri del PD) che le seguono. Mai meno di quattro.
Un povero tesserato non fa in tempo a dire l’ultima versione del partito che è già la … penultima

La prima

Se il primo giorno di lavoro avesse lo stesso valore del primo giorno di scuola o della prima volta, questa giornata finirà tra i ricordi più presenti.
Ma oggi non ho avuto la percezione di aver “timbrato” un cartellino per ricevere uno stipendio (che comunque non avrei … sono qui gratis): non ho ancora una scrivania, né un PC su cui scrivere, non ho compiti precisi se non quello di completare un progetto con scadenza di 3 mesi. Sono stato in ufficio fino alle 6 a leggere pagine e pagine di report sulla crisi nei Paesi Emergenti.
Dietro le tapparelle appena abbassate il Danubio e le barche a vela, le case della borghesia viennese e gli stormi di uccelli. Un quadro di Monet trasportato due secoli più tardi.
Per un giorno mi sono sentito nella stanza dei bottoni che si prende cura del mondo, ne affronta le discordie e si comporta in maniera responsabile. In attesa di capire, tra pochi giorni, di vivere in una splendida utopia.

domenica 12 luglio 2009

Ben


Il suo nome è Insa Dia ma tutti lo conoscono come Ben, dal nome di un grande personaggio del Senegal, il suo Paese. Ben è un piccolo grande eroe dei nostri giorni. Ha trascorso quindici anni a Bruxelles come autore di documentari sui misfatti d’Africa, per spronare gli emissari dei governi dell’Unione a scucire qualche euro in più dalle esangui casse nazionali. Ha smesso di fare il “lobbista dei poveri” da pochi anni ed oggi lavora a Torino all’ILO, un’istituzione affiliata alle Nazioni Unite, per la quale forgia i futuri angeli della ricostruzione africana. Tiene corsi sulla social security per diffondere l’idea di protezione sociale in Paesi in cui l’80% dell’economia è in nero e nessuno sa cosa sia la pensione per la vecchiaia, o l’assistenza sanitaria. Perché la vecchiaia non esiste e le medicine sono ancora un diritto di pochi.
I suoi occhi si accendono di speranza mentre fissano Obama con Sasha e Malia davanti al Castello di Cape Coast, teatro dell’Olocausto africano.
Da oggi si sente meno solo a sognare un destino diverso per la sua terra.

Il sidro della sensualità

I viaggiatori si dividono in tre categorie: quelli che appena prendono posto sulla poltrona d’aereo sfogliano ansiosi le istruzioni della sicurezza, come se avessero preso un biglietto per l’Apocalisse, quelli che si dedicano alle riviste turistiche (che stanno all’aereo come “Novella 2000” sta ai barbieri e “Quattroruote” ai dentisti), e quelli che si infischiano di tutto e fissano il sorriso delle hostess.
Oggi il viso di Romana Streuer, una graziosa hostess tirolese, mi ha rapito appena mi sono seduto in ultima fila. L’avevo accanto. Mi sussurrava di riporre il tavolino estraibile in fase di decollo. Ma io pensavo alla nostra vita in una baita di Klagenfurt. Mi ha chiesto cosa volevo da bere: e io ho risposto “sidro” che è la bevanda più disgustosa del mondo, ma anche l’unica che lei aveva in mano.
Poi sono atterrato. E il sogno è svanito.

sabato 11 luglio 2009

Italiener


Da domani sarò a Vienna per tre mesi. Penso all’Austria e mi vengono in mente: Hermann Maier e la Sacher, i Filarmonici di Capodanno e il padre padrone Fritz, il commissario Rex e il Danubio blu. Le palle di Mozart. Luoghi e luoghi comuni.
Cercherò di aggiungere qualcosa di più interessante agli stereotipi di un “Italiener” per capire se ciò che resta dell’Impero Asburgico ha conservato il fascino e l’imponenza di un tempo.

E soprattutto, proverò a capire se esiste qualche parola tedesca con meno di 15 lettere.

"Ballerine Bocconiane & aspiranti tali"

Amici con il vizio del gioco, del fumo, dell’alcol. Con la passione dei libri, della pesca sportiva e del calcetto urlato. Non mi sono fatto mancare granché quanto a frequentazioni.
Quest’anno ho incontrato il circolo delle “Ballerine Bocconiane & aspiranti tali” che mi hanno trascinato nel tourbillon della danza moderna. Io non ho opposto nessuna resistenza: lo spettacolo di Roland Petit, ispirato dalle musiche dei Pink Floyd era un giusto compromesso tra l’arte e la cultura pop. Un buon debutto nel mondo del balletto per uno che conosce la prima, la seconda posizione e il ronde de jambe. E basta.
L’ingresso alla Scala è un percorso ad ostacoli. Per conquistare uno dei biglietti bisogna sfidare il caldo milanese dell’una, sgomitare con gli altri prenotati alle 5 del pomeriggio e poi ripresentarsi “a lucido” per lo spettacolo delle 8.
Mi hanno confinato in piccionaia, in un’ottima posizione per contemplare il riflettore. Ma lo sforzo è stato ripagato dalle evoluzioni eleganti di Svetlana Zakharova, idolo delle mie amiche del circolo, e dalle musiche di Waters e soci.

In più ho capito cos’è la terza posizione. Alla quinta forse mi daranno la tessera del club “B B & a t”.

Non sono mica scemo


Antonio Di Pietro sbarca oltre Manica e scrive una lettera al Guardian, il “piccolo giornale autore di un grande abbaglio” che aveva criticato l’organizzazione italiana del G8.
Nel testo non c’è nulla che non appartenga alla poetica “dipietrista”: conflitto d’interessi, lodo Alfano, caso Mills. L’unica sorpresa sta nel leggere questi commenti in inglese e non in dialetto molisano.
Di Pietro invita la stampa estera a colmare le reticenze di quella nazionale ma si guarda bene dal chiedere al PD di interessarsi dei misfatti del Cavaliere. Per dirla come Tonino...
“Non so parlare bene, ma non sono mica scemo”

http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2009/jul/10/berlusconi-guardian-italy

venerdì 10 luglio 2009

Tutta colpa del Boogie

Per ogni figlio degli anni ’80 l’immagine di Jacko si confonde con il sorriso del bambino “Orzoro” e le acrobazie di Marc Lenders.
Quella di Jackson è la prima morte di una popstar nell’era digitale. Pensate a cosa sarebbe potuto succedere se Elvis si fosse strozzato con le ossa di pollo (così si narra) durante un pomeriggio del giugno 2009. Ascolteremmo gli stessi rituali, la stessa commozione che ora accompagnano Jacko al riposo eterno. E poco importa se la Elvis avesse oggi 74 anni, e una popolarità offuscata dal declino artistico.
Ma c’è qualcosa di più che il destino ha riservato al re del pop. A lui, artefice della rivoluzione dei videoclip degli anni ’80, il destino ha riservato l’onore di essere anche il primo “defunto globale” della storia, se è vero come è vero, che a metà dello scorso decennio uno studio aveva certificato che il 75% della popolazione mondiale lo conoscesse (l’amatissimo Giovanni Paolo II era al 44%).
Micheal Jackson sta allo showbiz come Jimi Hendrix sta alla chitarra elettrica. Il suo carisma rivoluzionario si estende anche oltre la morte. Ha radunato attorno alla sua bara dorata migliaia di persone (e milioni di telespettatori) nonché decine di personalità illustri, giunte a commemorarlo. Ricordate lo sguardo perso nel vuoto di Paul Mc Cartney dopo la morte di Lennon? Scosso e turbato, allontanava le telecamere con l’imperizia di un cantante pop alle prime armi. Pochi giorni fa, è stata invece “guerra” di comunicati stampa delle star per onorare la memoria del “più grande artista di sempre”, con buona pace del povero John o di Elvis, appunto.
Durante la carriera, Jackson ha cercato di costruire (non solo con l’aiuto del bisturi) un’immagine ecumenica, capace di legare insieme razze e religioni diverse, con canzoni semplici e testi imperniati sui valori più profondi dell’umanità.
Dopo la morte Michael si è sublimato addirittura a feticcio di sé. Il genio defunto non è più solo l’immortale autore di successi, è soprattutto un’immagine inerme catturata, replicata, diffusa dai media e dei fan, che si cibano della memoria del loro idolo distruggendone il fulgore artistico e lasciandone solo la caricatura sbiadita in jpeg.

A me piace ricordarlo così, flessuoso e talentuoso insieme ai suoi smaglianti fratelloni dei “Jackson Five”.
Tutta colpa del Boogie?


giovedì 9 luglio 2009

Il Cavaliere e il popolano


Bob Geldof non è stato un grande cantante. Ci ha lasciato una sola grande hit “I don’t like Mondays”, inno giovanilistico ispirato ad una strage in un college da parte di uno studente psicolabile.

Ma tutti gli siamo riconoscenti per aver regalato al mondo due eventi eccezionali, Live Aid e Live Eight, che hanno diffuso in musica la tragedia del continente africano.

Il primo concerto, datato 1985, ebbe due flash luccicanti: Freddy Mercury che entusiasma il pubblico di Wembley con “We are the champions”, Bono che salta giù dal palco e balla con una ragazza del pubblico.

Il secondo, organizzato a 20 anni di distanza fu un evento politico rivolto a creare pressioni sul G8 di Gleneagles per aumentare i fondi a favore dei Paesi africani.

Nonostante l’onda emotiva degli attentati a Londra ad opera di Al Qaida, a pochi giorni dal Summit, gli 8 grandi trovano il tempo per accogliere l’appello lanciato dal Live Eight, impegnandosi ad aumentare gli aiuti fino a 21,5 miliardi di dollari entro il 2010, il doppio rispetto a quanto stanziato nel 2004.

Pochi giorni fa, alla vigilia del G8 dell’Aquila, Geldof è tornato alla ribalta per attaccare i Paesi che non hanno rispettato gli impegni presi quattro anni fa, puntando l’indice contro l’Italia che ha destinato solo il 3% dei fondi promessi.

Lo scorso 5 luglio, Geldof, nel ruolo di “condirettore per un giorno” de “La Stampa”, ha pubblicato sul quotidiano torinese una monografia sul dramma dell’Africa e avuto l’opportunità di avere un faccia a faccia con Silvio Berlusconi.

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/africa/200907articoli/45230girata.asp

Se avete sempre desiderato un Berlusconi in difesa ma non avete mai osato chiederlo, eccovi accontentati. Quello ritratto dalla cronaca di Mario Calabresi è ben lontano dal politico spavaldo che risponde per le rime agli attacchi o declama monologhi nei salotti televisivi, è piuttosto il Cavaliere che si fa schermo dei suoi scudieri dall’assalto del "rozzo" popolano idealista.

Sarebbe troppo facile prendersela con il Premier per non aver mantenuto la promessa di scucire alle prosciugate casse dello stato Italiano un consistente assegno per l’Africa: altri Paesi hanno negato l’aiuto promesso, come la Francia. La "real politik", soprattutto in tempi di austerity, impone un fermo interesse per le questioni interne.

Sono le giustificazioni accampate da Berlusconi a saper di stantio: la crisi, la lontananza dal governo per due anni e mezzo, i vincoli imposti dall’Unione Europea e … dalla magistratura.

Se c’era un terreno su cui Berlusconi proprio non poteva sottostare alle accuse taglienti di Geldof era la credibilità internazionale, più dell’onore personale, più della fedeltà alla parola data. Ed invece ha ceduto miseramente alla tentazione di considerare il political-singer il Franceschini di turno, l’omuncolo mandato dall’opposizione a contestargli l’allegra vita coniugale .

Faccio fatica a considerare autorevole politico sulla scena internazionale chi affastella scuse, segnala coincidenze, addebita responsabilità scambiando la polemica politica nazionale con le grandi questioni mondiali.

Nei Paesi Anglosassoni vige una regola rigidissima: sono i dati che decretano il successo di un politico.

In Italia la realtà è ondivaga: ai numeri seri si oppongono opinioni. E ad accuse incalzanti si risponde con promesse.

Così lo scorso 8 luglio, Berlusconi “Mister 3%”, come l’ha causticamente definito Geldof, si è auto-ribattezzato “Mister 61,4 %”, ispirandosi al fantomatico dato sulla popolarità, che snocciola ogni giorno da mesi a questa parte. E a chi lo incalzava sui ritardi dei contributi promessi all’Africa, ha risposto con un “farò tutto il possibile”.

Consiglio a Geldof di commissionare sondaggi sulla popolarità in Africa di Berlusconi.

Per chi non si accontenta dei tori

Nasce un blog che non pretende l'indulgenza delle cose appena nate.
E' solo uno spazio libero in cui un ragazzo indeciso e timido si dedica alla sua passione: scrivere.

Tutto il resto lo scoprirete giorno dopo giorno.