20 marzo 1994. Ore 19.00. Il TG3 sta mandando in onda le immagini di auto blindate che sfrecciano in mezzo alla polvere e carri armati che si fanno largo tra la folla. Sospetto che quei fotogrammi vengano dall’Africa. Poi il giornalista specifica. E’ la Somalia. Mai sentita prima.
Sento dire che una giornalista e’ stata uccisa. Si chiama Ilaria Alpi e con lei un uomo con la barba che fa le riprese di tutto quello che Ilaria racconta. Non capisco nient’altro se non l’angoscia dei giornalisti che hanno appena saputo della morte di una loro collega.
Ilaria Alpi e’ stata uccisa per aver saputo di uno strana collusione tra malavita locale e servizi segreti italiani che avevano favorito lo smaltimento di rifiuti tossici in Somalia.
A lei sono dedicati premi giornalistici, manifestazioni sportive e anche una discutibile fiction. E’ un esempio di incisività e coraggio, gli stessi valori che hanno animato Marcello Palmisano, ucciso nel ’95 sempre in Somalia, Maria Grazia Cutuli, assassinata in Afghanistan ed Enzo Baldoni, caduto in Iraq.
Miran Hrovatin, l’uomo con la barba, invece, e’una delle vittime anonime dell’informazione. Di lui ricordo solo la barba folta e la telecamera in una foto scattata ai tempi della guerra in Ex Jugoslavia.
A rinnovarmi la sua memoria oggi e’ stato suo figlio, Ian.
All’estero per attaccar bottone con gli italiani basta dire “Sei italiano?”. Sentirai sempre un sì e una proposta per mangiare assieme. Detto fatto.
Ian e il suo amico Michele lavorano come stagisti nel Dipartimento Anticrimine. Trattano roba seria: dal traffico d’armi a quello della droga. Ti elencano il giro d’affari di ‘Ndrangheta e Cosa Nostra come la classifica di Serie A. Un pranzo con loro non è distensivo come un aperitivo con un ricercatore di microeconomia.
Poi ad un tratto, tra le tante quisquilie che si dicono tra italiani all’estero salta fuori quella del cognome.
Quello di Ian non e’ italiano. Gli chiedo di ripeterlo perchè l’ho già sentito, ma non ricordo quando. Poi ricollego tutto a quella barba e a quella telecamera. E la sua risposta è sorprendente e agghiacciante al tempo stesso. “Sono il figlio”.
E’ scosso anche lui, non tanto per il ricordo del padre con cui è abituato a convivere da 15 anni ma perchè sono uno dei pochi a ricordarsi del cineoperatore Hrovatin. “Di solito solo gli adulti mi associano a mio padre, e questo mi ha aiutato ad inserirmi meglio tra i miei coetanei” mi sussurra mentre stringe con incertezza un anello al dito medio. Io provo pudore nel chiedergli del papà perso tragicamente, ma lui non ha difficoltà a raccontarmi i ricordi d’infanzia: il casco blu dell’ONU e i proiettili delle forze di sicurezza raccolti nei teatri di guerra e regalatigli dal coraggioso Miran. Cimeli che solleticavano la sua fantasia di bambino alle prese con i soldatini di latta sul tavolo di casa. Poi un primo incubo. La morte del papà di un suo compagno alle elementari. Anch’egli cineoperatore nei Balcani. Mai avrebbe pensato che pochi mesi dopo quella stessa sorte sarebbe toccata proprio a lui.
Gli chiedo del futuro, dei suoi sogni.
Ian risponde in modo forbito e diretto. Completerà il quinto anno dell’Accademia di scienze diplomatiche di Vienna l’anno prossimo. Non sa se tornerà nella sua Gorizia. Quello che gli importa è lavorare per gli altri.
Gli piace la storia e la politica internazionale, mi racconta entusiasta il rapporto molto stretto allacciato con i professori della sua università. Sfodera un senso dell’umorismo penetrante verso tutti, anche in inglese.
Negli occhi chiari ha un’assenza che ha colmato con coraggio e nel cuore una dignitosa magnanimità. Proprio come Miran.
venerdì 17 luglio 2009
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