Dalla guerra preventiva al Nobel preventivo. L’America ha cambiato rotta. Nel giro di un anno ha defenestrato il presidente guerrafondaio ed ha eletto l’oratore incisivo che vince il premio più ambito dagli statisti.
Ma la realtà è meno rassicurante di quanto sembra. Di segni davvero tangibili Obama non ne ha lasciati, né in patria né in politica estera. Ecco perché il premio assegnato dall’Accademia Norvegese sembra, nella migliore delle ipotesi, in anticipo sui tempi.
Il presidente stesso l’ha ammesso: “Mi premiano per quello che ho detto, non per quello che ho fatto ”.
I primi dieci mesi dell’era Obama verranno ricordati solo per sfavillanti proclami. Da Praga, dove ha prospettato un mondo libero dalle armi atomiche, al Cairo, da cui ha teso la mano al mondo islamico, Obama ha solo tracciato scenari ideali e, nell’accezione più alta, populisti: doveva riconquistare la fiducia del popolo europeo, tradito dall’unilateralismo arrogante di Bush Jr, e riallacciare i fili lacerati con il Medio Oriente, offeso dal filo-ebraismo americano. Ha finito solo per plagiare i membri dell’accademia Norvegese, più affascinati dalla cassa di risonanza mediatica che dai risultati conquistati.
I traguardi interlocutori sbiadiscono di fronte ai grandi temi, lasciati in eredità dal vecchio inquilino della Casa Bianca.
L’Afganistan è una carneficina senza via d’uscita, l’Iraq è un protettorato americano armato, il carcere di Guantanamo detiene ancora prigionieri, l’Iran continua a fare il muso duro sul nucleare.
Non è detto che il riconoscimento di oggi giovi ad Obama più di quanto gli noccia. Forse ne avrebbe fatto a meno. Con quale spirito, ad esempio, il Presidente raddoppierà il contingente americano nella terra dei Talebani tra pochi mesi? Con quello del “commander in chief” o con quello del pluripremiato paladino del disarmo globale? Per questo Obama chiede umilmente (“humbly”) a tutto il mondo di non tributargli le responsabilità (e gli oneri) di un supereroe e, sapendo di tradire in futuro le aspettative di molti antimilitaristi, si dichiara “non ancora all’altezza del riconoscimento”.
Ha ragione.
Paradossalmente il Nobel di quest’anno l’avrebbe meritato la sua Nazione, così decisa ad urlare al mondo lo sdegno per il protagonismo violento di Bush.
“Hope” è lo slogan sul celebre poster di Obama. Ed è anche la motivazione più efficace del Premio.
venerdì 9 ottobre 2009
Orgoglio e pregiudizio
"Sono orgoglioso di aver guidato un Paese in cui anche un primo ministro può essere indagato come un semplice cittadino"
Ehud Olmert
"I processi che mi scaglieranno addosso sono autentiche farse. Sottrarrò qualche ora alla cura della cosa pubblica per andare là e sbugiardarli tutti"
Silvio Berlusconi
Ehud Olmert
"I processi che mi scaglieranno addosso sono autentiche farse. Sottrarrò qualche ora alla cura della cosa pubblica per andare là e sbugiardarli tutti"
Silvio Berlusconi
giovedì 8 ottobre 2009
Licantropo alato
Patrick Wolf, il "licantropo" della musica inglese, irrompe sul palco a cavallo del corrimano della scalinata e impugna subito il violino, suo inseparabile compagno. È un menestrello decadente come il David Bowie dell’epoca glam ed sfoggia una sensuale voce baritonale degna di Boy George.
Passa dagli archi alla chitarra elettrica, dal piano al liuto con più facilità dei cambi d’abito in camerino. È un material boy. Ama trasformare il suo aspetto in un caleidoscopio di figure letterarie.
Prima si presenta da Dioniso ammantato di polvere di stelle, poi da artista queer dall’ambigua identità sessuale, infine da bohemien decadente coperto di un manto di piume.
Come l’albatro, dal volo maestoso e dalla camminata goffa, simbolo del dandy moderno di Baudelaire, Patrick dispiega la sua arte impugnando l’archetto dalle corde lesionate fluorescenti come cavi elettrici. Quasi stenta a mettere in fila le parole negli intermezzi tra una canzone e l’altra. Con gli occhi ingenui sembra implorare comprensione mentre racconta della solitudine da cui nascono i suoi brani e dell’ebbrezza delle feste alcoliche in cui si immerge per dimenticare le delusioni amorose.
Patrick costruisce la sua arte sull’ossimoro. Riveste le spigolose basi beat e dub-step con carezzevoli arie di violino. In un’atmosfera claustrofobica agita la chioma bionda e inneggia al faro accecante nella notte (“I followed the swans. Like i follow my dreams… to the lighthouse”). Canta risoluto della sua insaziabile voglia d’amore (“Mourning for your own true love, why not me for mine”) mentre lascia intravedere il corpo efebico ed immaturo.
Così, una notte di inizio autunno, Vienna ha abbracciato un giovane elfo venuto dal Nord a celebrare la tradizione musicale sulle rive del Danubio.
Passa dagli archi alla chitarra elettrica, dal piano al liuto con più facilità dei cambi d’abito in camerino. È un material boy. Ama trasformare il suo aspetto in un caleidoscopio di figure letterarie.
Prima si presenta da Dioniso ammantato di polvere di stelle, poi da artista queer dall’ambigua identità sessuale, infine da bohemien decadente coperto di un manto di piume.
Come l’albatro, dal volo maestoso e dalla camminata goffa, simbolo del dandy moderno di Baudelaire, Patrick dispiega la sua arte impugnando l’archetto dalle corde lesionate fluorescenti come cavi elettrici. Quasi stenta a mettere in fila le parole negli intermezzi tra una canzone e l’altra. Con gli occhi ingenui sembra implorare comprensione mentre racconta della solitudine da cui nascono i suoi brani e dell’ebbrezza delle feste alcoliche in cui si immerge per dimenticare le delusioni amorose.
Patrick costruisce la sua arte sull’ossimoro. Riveste le spigolose basi beat e dub-step con carezzevoli arie di violino. In un’atmosfera claustrofobica agita la chioma bionda e inneggia al faro accecante nella notte (“I followed the swans. Like i follow my dreams… to the lighthouse”). Canta risoluto della sua insaziabile voglia d’amore (“Mourning for your own true love, why not me for mine”) mentre lascia intravedere il corpo efebico ed immaturo.
Così, una notte di inizio autunno, Vienna ha abbracciato un giovane elfo venuto dal Nord a celebrare la tradizione musicale sulle rive del Danubio.
venerdì 2 ottobre 2009
Pruriti
In America la confessione di tradimento di David Letterman in diretta ha avuto clamore più per la minaccia di un collaboratore di diffondere clandestinamente la notizia che per il suo risvolto piccante.
Da noi il caso Berlusconi-D’Addario è stato amplificato dalla stampa per l'alone di gossip e solo en passant per la ricattabilità del premier.
Sarà conseguenza del clima più permissivo d’Oltreoceano? O sarà che non c’è nulla di più pruriginoso della menzogna?
Da noi il caso Berlusconi-D’Addario è stato amplificato dalla stampa per l'alone di gossip e solo en passant per la ricattabilità del premier.
Sarà conseguenza del clima più permissivo d’Oltreoceano? O sarà che non c’è nulla di più pruriginoso della menzogna?
giovedì 1 ottobre 2009
L'Annozero dell'informazione
Credevo nella buona fede giornalistica di Michele Santoro e pensavo che Annozero fosse una parentesi di libertà nel panorama televisivo oscurantista.
Mi sbagliavo.
Annozero sta sotterrando i meriti delle inchieste incisive con le debolezze degli attacchi precostituiti.
Santoro pecca di demagogia e di autoreferenzialità, snocciola sillogismi forzati e disinvolti, crede di essere l’unico esportatore della libertà nella Repubblica delle Banane, insinua messaggi subliminali con lo scopo di sintonizzare gli spettatori sulla sua lunghezza d'onda.
Intendiamoci, Santoro non è meno sconcertante del suo collega Minzolini artefice di una faziosità “istituzionale” a capo del Tg1, dove pilota interviste propagandiste e va in onda per giustificare censure a favore del premier.
Solo nell’ultima settimana molti esponenti del “pensiero maggioritario” hanno sfoggiato una partigianeria decisamente preoccupante, segno che la parzialità non è un difetto solo del giornalista di Samarcanda.
Il direttore di Raidue Liofredi si dissocia pubblicamente da una trasmissione della sua rete giustificando con motivi tecnici il mancato invio delle troupe richieste.
Il ministro Scajola, abusando dei suoi poteri, annuncia di convocare i vertici Rai per verificare che la trasmissione garantisca «un' informazione completa e imparziale».
Il sottosegretario alle Comunicazioni Romani “irrompe” con una mossa palesemente concordata con Palazzo Chigi nel salotto diafano di Vespa poco dopo l’apparizione di Patrizia D’Addario ad Annozero.
Il direttore di Libero Belpietro passa a far visita al Premier Berlusconi prima della suddetta trasmissione, non certo per fargli (solo) gli auguri di compleanno.
Come ha scritto Aldo Grasso sul Corriere di qualche giorno fa, Michele Santoro è “accidente della democrazia”. Ma eliminarlo dal palinsesto equivarrebbe alla soppressione della stessa.
La democrazia si fregia di una parola abusata, pluralismo,che oscilla ambiguamente tra due estremi: disseminare i palinsesti trasmissioni con faziose di segno opposto, come tanti frammenti di dittature manovrate dai partiti in un clima di tensione crescente; realizzare trasmissioni con il “bilancino”, simili a tribune elettorali, con un'informazione ignava, anestetizzata e sudbolamente allineata al potere.
Il dibattito sul significato di informazione libera e indipendente non è in via di risoluzione a meno di improbabili distensioni del dibattito politico o di imprevedibili privatizzazioni del servizio pubblico.
Dopo quasi due decenni di polemica dissennata ci stiamo avvicinando ad una cruenta resa dei conti da cui la nostra informazione non uscirà migliore.
E nemmeno noi.
Mi sbagliavo.
Annozero sta sotterrando i meriti delle inchieste incisive con le debolezze degli attacchi precostituiti.
Santoro pecca di demagogia e di autoreferenzialità, snocciola sillogismi forzati e disinvolti, crede di essere l’unico esportatore della libertà nella Repubblica delle Banane, insinua messaggi subliminali con lo scopo di sintonizzare gli spettatori sulla sua lunghezza d'onda.
Intendiamoci, Santoro non è meno sconcertante del suo collega Minzolini artefice di una faziosità “istituzionale” a capo del Tg1, dove pilota interviste propagandiste e va in onda per giustificare censure a favore del premier.
Solo nell’ultima settimana molti esponenti del “pensiero maggioritario” hanno sfoggiato una partigianeria decisamente preoccupante, segno che la parzialità non è un difetto solo del giornalista di Samarcanda.
Il direttore di Raidue Liofredi si dissocia pubblicamente da una trasmissione della sua rete giustificando con motivi tecnici il mancato invio delle troupe richieste.
Il ministro Scajola, abusando dei suoi poteri, annuncia di convocare i vertici Rai per verificare che la trasmissione garantisca «un' informazione completa e imparziale».
Il sottosegretario alle Comunicazioni Romani “irrompe” con una mossa palesemente concordata con Palazzo Chigi nel salotto diafano di Vespa poco dopo l’apparizione di Patrizia D’Addario ad Annozero.
Il direttore di Libero Belpietro passa a far visita al Premier Berlusconi prima della suddetta trasmissione, non certo per fargli (solo) gli auguri di compleanno.
Come ha scritto Aldo Grasso sul Corriere di qualche giorno fa, Michele Santoro è “accidente della democrazia”. Ma eliminarlo dal palinsesto equivarrebbe alla soppressione della stessa.
La democrazia si fregia di una parola abusata, pluralismo,che oscilla ambiguamente tra due estremi: disseminare i palinsesti trasmissioni con faziose di segno opposto, come tanti frammenti di dittature manovrate dai partiti in un clima di tensione crescente; realizzare trasmissioni con il “bilancino”, simili a tribune elettorali, con un'informazione ignava, anestetizzata e sudbolamente allineata al potere.
Il dibattito sul significato di informazione libera e indipendente non è in via di risoluzione a meno di improbabili distensioni del dibattito politico o di imprevedibili privatizzazioni del servizio pubblico.
Dopo quasi due decenni di polemica dissennata ci stiamo avvicinando ad una cruenta resa dei conti da cui la nostra informazione non uscirà migliore.
E nemmeno noi.
lunedì 28 settembre 2009
Nocche di rabbia
Roberto Saviano ha da poco compiuto 30 anni e da 3 vive sotto scorta. La sua unica fonte di libertà ormai sono le parole, distillate nelle appassionanti interviste che di tanto in tanto concede. Venerdì l’ultima, all’Era Glaciale.
In ogni trasmissione, Saviano subisce lo stillicidio dei filmati ingiuriosi degli abitanti di Casal di Principe. Si prende gli insulti e le calunnie con una serafica quiete dettata più dall’abitudine che dalla misericordia. Da pochi giorni ha scoperto che l'ostracismo nei suoi confronti si é esteso anche al di là dei territori sventrati di Gomorra. All’indomani della strage in Afghanistan lo scrittore sotto protezione ricorda che "i 6 caduti di Kabul sono tutti ragazzi meridionali" e invita tutti gli Italiani a riconoscere il sacrificio di ragazzi coraggiosi che hanno pagato con la vita la scelta di non finire nell'altro esercito, quello della criminalità.
Dal Nord si leva però un muro di indifferenza alla morte dei giovani soldati, sorretto da grevi ragionamenti come “Erano ben pagati, se la son cercata”, “Noi abbiamo il lavoro e loro la camorra”.
Due anni fa un Biagi sibillino gli aveva preannunciato il livore nutrito da molti suoi connazionali: “Hai fatto qualcosa che ti faranno pagare”. L’Italia non sopporta che qualcuno le sveli la sua coscienza degradata, indifferente al dolore ed assuefatta ad ogni tragedia.
Saviano affonda il coltello nella carne putrefatta, fa riemergere i rifiuti della memoria pubblica seppelliti dall'oblio. Istiga a prender parte, a rifuggire la neutralità. O sei contro o sei con il Sistema.
Per lui un assassinio truculento non è uno sporco rituale di sopravvivenza tra iene dello stesso clan. E’ il risvolto microscopico dell’universale tragedia umana. Se annusi bene, la coca spacciata tra le vele di Scampia ti conduce nei capannoni operosi e profittevoli della Brianza. Il sangue delle mattanze al Sud si trasforma in denaro pulito per le fabbriche del Nord.
Saviano è un uomo ossessionato da una lodevole ambizione: veicolare il senso tragico degli eventi attraverso la “parola scritta” e la sua immagine.
Dà dignità letteraria alle cronache locali e alle sentenze della magistratura, terreno per addetti ai lavori e giornalisti di provincia, come Manzoni ricopriva di significato universale le grida dei Governatori spagnoli. Cerca deliberatamente l'esposizione mediatica per fare della sua faccia un monito contro il disimpegno.
I suoi ultimi tre anni di passione sono scanditi da una domanda impudica: ne é valsa la pena?
Se all’inizio della sua avventura civile rispondeva in modo disincantato ed ottimista (“Certo che sì, credo che i boss abbiano altro a cui pensare”), man mano che la valanga di coscienze trafitte dal suo best seller montava e le condanne a morte pronunciate dai boss riempivano i dossier dei Servizi, le risposte si facevano più evasive. Fino alla resa: “Quel libro mi ha distrutto la vita”.
Ora Saviano vive le apparizioni televisive con lo spirito dell’evaso. “Sono le uniche occasioni in cui posso fare qualcosa di diverso e respirare un po’ di libertà”. Passa le giornate ordinarie sotto la cappa della scorta, immaginando i mille modi architettati dai suoi nemici per toglierlo di mezzo.
Nonostante abbia vissuto dieci vite in una, densa di riconoscimenti e attenzioni, è regredito nell'animo, come se la rabbia che lo spingeva a “scrivere con le nocche” sulla tastiera, ora lo accompagnasse in tutti gesti, dal tormentarsi gli anelli sulle falangi allo sfregarsi la testa lucida.
La rabbia come compagna di vita. Questo è il prezzo che ha pagato per aver anteposto all'ambizione di una vita serena l'utopia di un'ideale universale.
Diceva Edmond Burke: “Perché il male trionfi basta che i brav'uomini non facciano niente”. Credo che Roberto Saviano si sia caricato l’opera di molti di loro.
In ogni trasmissione, Saviano subisce lo stillicidio dei filmati ingiuriosi degli abitanti di Casal di Principe. Si prende gli insulti e le calunnie con una serafica quiete dettata più dall’abitudine che dalla misericordia. Da pochi giorni ha scoperto che l'ostracismo nei suoi confronti si é esteso anche al di là dei territori sventrati di Gomorra. All’indomani della strage in Afghanistan lo scrittore sotto protezione ricorda che "i 6 caduti di Kabul sono tutti ragazzi meridionali" e invita tutti gli Italiani a riconoscere il sacrificio di ragazzi coraggiosi che hanno pagato con la vita la scelta di non finire nell'altro esercito, quello della criminalità.
Dal Nord si leva però un muro di indifferenza alla morte dei giovani soldati, sorretto da grevi ragionamenti come “Erano ben pagati, se la son cercata”, “Noi abbiamo il lavoro e loro la camorra”.
Due anni fa un Biagi sibillino gli aveva preannunciato il livore nutrito da molti suoi connazionali: “Hai fatto qualcosa che ti faranno pagare”. L’Italia non sopporta che qualcuno le sveli la sua coscienza degradata, indifferente al dolore ed assuefatta ad ogni tragedia.
Saviano affonda il coltello nella carne putrefatta, fa riemergere i rifiuti della memoria pubblica seppelliti dall'oblio. Istiga a prender parte, a rifuggire la neutralità. O sei contro o sei con il Sistema.
Per lui un assassinio truculento non è uno sporco rituale di sopravvivenza tra iene dello stesso clan. E’ il risvolto microscopico dell’universale tragedia umana. Se annusi bene, la coca spacciata tra le vele di Scampia ti conduce nei capannoni operosi e profittevoli della Brianza. Il sangue delle mattanze al Sud si trasforma in denaro pulito per le fabbriche del Nord.
Saviano è un uomo ossessionato da una lodevole ambizione: veicolare il senso tragico degli eventi attraverso la “parola scritta” e la sua immagine.
Dà dignità letteraria alle cronache locali e alle sentenze della magistratura, terreno per addetti ai lavori e giornalisti di provincia, come Manzoni ricopriva di significato universale le grida dei Governatori spagnoli. Cerca deliberatamente l'esposizione mediatica per fare della sua faccia un monito contro il disimpegno.
I suoi ultimi tre anni di passione sono scanditi da una domanda impudica: ne é valsa la pena?
Se all’inizio della sua avventura civile rispondeva in modo disincantato ed ottimista (“Certo che sì, credo che i boss abbiano altro a cui pensare”), man mano che la valanga di coscienze trafitte dal suo best seller montava e le condanne a morte pronunciate dai boss riempivano i dossier dei Servizi, le risposte si facevano più evasive. Fino alla resa: “Quel libro mi ha distrutto la vita”.
Ora Saviano vive le apparizioni televisive con lo spirito dell’evaso. “Sono le uniche occasioni in cui posso fare qualcosa di diverso e respirare un po’ di libertà”. Passa le giornate ordinarie sotto la cappa della scorta, immaginando i mille modi architettati dai suoi nemici per toglierlo di mezzo.
Nonostante abbia vissuto dieci vite in una, densa di riconoscimenti e attenzioni, è regredito nell'animo, come se la rabbia che lo spingeva a “scrivere con le nocche” sulla tastiera, ora lo accompagnasse in tutti gesti, dal tormentarsi gli anelli sulle falangi allo sfregarsi la testa lucida.
La rabbia come compagna di vita. Questo è il prezzo che ha pagato per aver anteposto all'ambizione di una vita serena l'utopia di un'ideale universale.
Diceva Edmond Burke: “Perché il male trionfi basta che i brav'uomini non facciano niente”. Credo che Roberto Saviano si sia caricato l’opera di molti di loro.
mercoledì 16 settembre 2009
Ricordi su stampa economica
Mi hanno chiesto di preparare la farewell card per gli amici in partenza e ho accettato volentieri. Come posso negarmi di gustare i ricordi in piena solitudine?
Dopo il lavoro, per un’ora la scrivania si trasforma nel banco di ArtAttack. Tutto è al suo posto, le forbici, la colla, due cartoncini colorati. Uno blu per l'amico discreto, l’altro arancio, per l’amica nomade.
Mentre ritaglio le foto, i nostri occhi affusolati per la gioia, freschi di stampa economica, riprendono vita. E i brividi si attaccano ai ricordi come le mani ai fogli impregnati di colla.
Da domani molte emozioni finiranno in letargo. Che il risveglio sia più dolce dell’assopimento.
Dopo il lavoro, per un’ora la scrivania si trasforma nel banco di ArtAttack. Tutto è al suo posto, le forbici, la colla, due cartoncini colorati. Uno blu per l'amico discreto, l’altro arancio, per l’amica nomade.
Mentre ritaglio le foto, i nostri occhi affusolati per la gioia, freschi di stampa economica, riprendono vita. E i brividi si attaccano ai ricordi come le mani ai fogli impregnati di colla.
Da domani molte emozioni finiranno in letargo. Che il risveglio sia più dolce dell’assopimento.
martedì 15 settembre 2009
Prova d'amore
Ora capisco perché al tramonto centinaia di amatori scorrazzano per le strade bianche dei parchi. Si preparano per la Business Run, la corsa più amata dai viennesi brizzolati. Gli organizzatori ci sanno fare: intorno all’Hernst Hopper Stadion, teatro di finali di Champions League ed Europei, hanno installato due palchi e qualche telecamera panoramica, due archi di trionfo e decine di stand, con la guarnizione delle cheerleader e del Linus d’Austria. Bastano questi ingredienti a trasformare una gara di quattro chilometri in un evento da trentamila presenze. “E’ come se qua ci fosse tutto il mio paese” mi dice entusiasta Giorgio, mentre fa stretching e mi mostra orgoglioso il numero 285C sulla tuta gialla. La A e la B le hanno le sue compagne di team, Martina e Suman che gareggia con l’ambizione di stare sotto i trenta minuti, e abbracciare suo marito Michael alla fine della fatica. Mezz’ora dopo, o giù di lì, Giorgio è già all’arrivo ad addentare il meritato bratwurst, mentre Suman passa sotto lo striscione d’arrivo seguita dallo sguardo affettuoso di Michael che, come in una prova d’amore, potrà sussurrarle: “Ti ho riconosciuta tra migliaia di persone”.
venerdì 11 settembre 2009
mercoledì 9 settembre 2009
Cappellino rosso, maglia nera, bandiera bianca
Fa quasi tenerezza Badoer mentre racconta le sue disavventure in sala stampa, a Spa, dopo la seconda gara conclusa da ultimo, a trenta secondi dal penultimo, il carneade spagnolo Jaime Alguersuari. Gli chiedono se si senta ormai messo da parte dalla scuderia, se provi imbarazzo per essere l’unico pilota Ferrari arrivato ultimo per due volte di fila, se creda ancora di conservare il volante anche a Monza, proprio ora che Fisichella è sul podio a celebrare un inaspettato secondo posto.
Badoer non ha il piede temerario in curva ma conosce una dote che fuori dal tracciato lo eleva sul gradino piú alto: la dignità. Si offre alle telecamere senza accampare scuse, ribatte colpo su colpo alle velenose insinuazioni dichiarando progressi cronometrici a cui però nessuno crede, infine ammette i propri limiti celando gli occhi rugiadosi per lo sconforto sotto il cappellino rosso di vergogna.
Lo “Schumacher dei collaudatori” ha alzato bandiera bianca. L’anno prossimo tornerà l’uomo ombra del jet set motoristico, il protagonista dei giorni feriali a Fiorano, la balia che alleva le giovani puledre imbizzarrite del cavallino.
Sono passati poco più di quindici anni da quando la Ferrari licenziò Ivan Capelli, sì proprio il competente commentatore televisivo, che evidentemente ha più confidenza con le parole che con le chicane. E di piloti che fanno venire i brividi al solo pensiero di portarti al supermercato sono piene le cronache sportive: dal lussemburghese Carel Godin de Beaufort degli anni ’60 a Kazuki Nakajima dei nostri giorni.
Ma Badoer ha qualcosa in più di tutti questi: vent'anni di militanza mediocre in F1, insomma le stimmate dell’ultimo. Dopo gli esordi in scuderie minori e cinquanta gran premi passati a guardare i tubi di scappamento degli avversari, senza raggranellare nemmeno un punto, passa alla miglior vita del collaudatore: 12 anni a macinare fino a 20 mila chilometri l’anno sulla piste di Fiorano per testare alettoni ed accompagnare i magnati della finanza a bordo delle auto extra lusso.
Tra qualche anno l’epiteto di “Badoer” risuonerà tra gli sberleffi più gettonati dei tifosi, al pari dei nomi di altri illustri ultimi dello sport. Come Luigi Malabrocca che, al contrario del povero pilota veneto, non faceva nulla per evitare l’ultima piazza, anzi gareggiava fieramente con i rivali di retro classifica per conquistare la maglia nera: andava in fuga dietro al gruppo, entrava nei bar , si nascondeva nelle scarpate, nei fienili, nelle cantine, finché un giorno i cronometristi, stanchi dei suoi sotterfugi, gli attribuirono il tempo del gruppo, privandolo della gloria dell’ultimo posto.
E come Comunardo Niccolai, il massimo interprete di autoreti nel calcio italiano. Ne realizzó ben 11 in tutta la sua carriera, spettacolari come i gol del suo compagno del Cagliari, Gigi Riva: testa, destro, sinistro, controbalzo. Tale fu la sorpresa di vederlo esordire in nazionale ai Mondiali del ’70 che il suo allenatore dell’epoca, Manlio Scopigno, sbottò dal divano di casa: "Mi sarei aspettato di tutto dalla vita, ma non di vedere Niccolai in mondovisione".
A noi é toccato Badoer perfino in alta definizione.
Badoer non ha il piede temerario in curva ma conosce una dote che fuori dal tracciato lo eleva sul gradino piú alto: la dignità. Si offre alle telecamere senza accampare scuse, ribatte colpo su colpo alle velenose insinuazioni dichiarando progressi cronometrici a cui però nessuno crede, infine ammette i propri limiti celando gli occhi rugiadosi per lo sconforto sotto il cappellino rosso di vergogna.
Lo “Schumacher dei collaudatori” ha alzato bandiera bianca. L’anno prossimo tornerà l’uomo ombra del jet set motoristico, il protagonista dei giorni feriali a Fiorano, la balia che alleva le giovani puledre imbizzarrite del cavallino.
Sono passati poco più di quindici anni da quando la Ferrari licenziò Ivan Capelli, sì proprio il competente commentatore televisivo, che evidentemente ha più confidenza con le parole che con le chicane. E di piloti che fanno venire i brividi al solo pensiero di portarti al supermercato sono piene le cronache sportive: dal lussemburghese Carel Godin de Beaufort degli anni ’60 a Kazuki Nakajima dei nostri giorni.
Ma Badoer ha qualcosa in più di tutti questi: vent'anni di militanza mediocre in F1, insomma le stimmate dell’ultimo. Dopo gli esordi in scuderie minori e cinquanta gran premi passati a guardare i tubi di scappamento degli avversari, senza raggranellare nemmeno un punto, passa alla miglior vita del collaudatore: 12 anni a macinare fino a 20 mila chilometri l’anno sulla piste di Fiorano per testare alettoni ed accompagnare i magnati della finanza a bordo delle auto extra lusso.
Tra qualche anno l’epiteto di “Badoer” risuonerà tra gli sberleffi più gettonati dei tifosi, al pari dei nomi di altri illustri ultimi dello sport. Come Luigi Malabrocca che, al contrario del povero pilota veneto, non faceva nulla per evitare l’ultima piazza, anzi gareggiava fieramente con i rivali di retro classifica per conquistare la maglia nera: andava in fuga dietro al gruppo, entrava nei bar , si nascondeva nelle scarpate, nei fienili, nelle cantine, finché un giorno i cronometristi, stanchi dei suoi sotterfugi, gli attribuirono il tempo del gruppo, privandolo della gloria dell’ultimo posto.
E come Comunardo Niccolai, il massimo interprete di autoreti nel calcio italiano. Ne realizzó ben 11 in tutta la sua carriera, spettacolari come i gol del suo compagno del Cagliari, Gigi Riva: testa, destro, sinistro, controbalzo. Tale fu la sorpresa di vederlo esordire in nazionale ai Mondiali del ’70 che il suo allenatore dell’epoca, Manlio Scopigno, sbottò dal divano di casa: "Mi sarei aspettato di tutto dalla vita, ma non di vedere Niccolai in mondovisione".
A noi é toccato Badoer perfino in alta definizione.
domenica 6 settembre 2009
Pillole di Viagra
In questi giorni l’America vede sgambettare sui campi degli US Open truppe di belle ragazze provenienti dall’Ex Unione Sovietica. Slate e Marginal Revolution tentano di spiegare il motivo della strabiliante concentrazione di bellezza al di là della vecchia cortina di ferro.
Secondo alcuni l’avvenenza femminile è superiore nelle aree a maggiore ineguaglianza sociale. Secondo altri, la bellezza di molte slave ha origine nella superiorità numerica delle donne sugli uomini, che spinge le esponenti del gentil sesso ad una competizione spietata per la conquista di un uomo.
Migliaia di Italiani sono giá in coda alle frontiere dei Paesi dell'Est al grido di "Abbasso la concorrenza, evviva il monopolio della Russa"
L’Economist analizza la perdurante stagnazione del real estate americano esordendo con le disavventure immobiliari di Hugh Hefner.
Il celebre fondatore di Playboy ha venduto la residenza di Holmby Hills, in California, ad un imprenditore venticinquenne per 18 milioni di dollari, il 36% in meno di quanto richiesto.
La crisi monta, il “Padre delle conigliette” non più.
Le eroine repubblichine continuano a mietere successi.
Patrizia D’Addario, reduce dalle interviste dei network internazionali, è sbarcata alla Mostra del Cinema di Venezia, accolta da vera star.
Noemi Letizia, lasciate le feste sarde a base di gavettoni di Moet-Chandon, rilascia una lunga intervista al tabloid inglese Daily Mail.
Soddisfazione nella redazione de La Repubblica: “Quest’anno fattureremo più di Lele Mora”.
Secondo alcuni l’avvenenza femminile è superiore nelle aree a maggiore ineguaglianza sociale. Secondo altri, la bellezza di molte slave ha origine nella superiorità numerica delle donne sugli uomini, che spinge le esponenti del gentil sesso ad una competizione spietata per la conquista di un uomo.
Migliaia di Italiani sono giá in coda alle frontiere dei Paesi dell'Est al grido di "Abbasso la concorrenza, evviva il monopolio della Russa"
L’Economist analizza la perdurante stagnazione del real estate americano esordendo con le disavventure immobiliari di Hugh Hefner.
Il celebre fondatore di Playboy ha venduto la residenza di Holmby Hills, in California, ad un imprenditore venticinquenne per 18 milioni di dollari, il 36% in meno di quanto richiesto.
La crisi monta, il “Padre delle conigliette” non più.
Le eroine repubblichine continuano a mietere successi.
Patrizia D’Addario, reduce dalle interviste dei network internazionali, è sbarcata alla Mostra del Cinema di Venezia, accolta da vera star.
Noemi Letizia, lasciate le feste sarde a base di gavettoni di Moet-Chandon, rilascia una lunga intervista al tabloid inglese Daily Mail.
Soddisfazione nella redazione de La Repubblica: “Quest’anno fattureremo più di Lele Mora”.
sabato 5 settembre 2009
C'è solo la strada
Al Giornale Radio annunciano il trasferimento dei terremotati dell’Aquila alle abitazioni provvisorie. Cronaca della smobilitazione, annunci della Protezione Civile, proclami del Premier.
Sul finire del servizio un terremotato racconta la tristezza di abbandonare gli amici incontrati nelle tendopoli. Non è affatto entusiasta di entrare in una casa che, pur temporanea, gli permetterà di girare in ciabatte sul pavimento, godere dell’intimità con la propria moglie, farsi una doccia senza l’assillo dello sguardo del compagno di tenda.
All’Aquila la gente non si nega alle telecamere anche se ha lasciato tra i calcinacci i bei vestiti, che sperava un giorno di sfoggiare in diretta dalla Clerici. I bambini, orfani della Play Station, si entusiasmano per le “carammelle” vinte alle partite di calcetto, i commercialisti, leniti i dissapori atavici, si fregano a tressette come i dopolavoristi del circolo e le signore, sedotte e abbandonate da Carlo Conti, hanno sostituito all’amante catodico la nuova amica seduta al tavolino.
In sei mesi tutti hanno dimenticato i programmi della lavastoviglie e perso dimestichezza con i tasti del cellulare, ma hanno messo in comune una memoria che non si misura in bit ma in ricordi.
Nelle case non c'è niente di buono
appena una porta si chiude dietro a un uomo
succede qualcosa di strano, non c'è niente da fare
è fatale, quell'uomo comincia ad ammuffire.
C'è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza
c'è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza
perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.
Giorgio Gaber. C'è solo la strada
Sul finire del servizio un terremotato racconta la tristezza di abbandonare gli amici incontrati nelle tendopoli. Non è affatto entusiasta di entrare in una casa che, pur temporanea, gli permetterà di girare in ciabatte sul pavimento, godere dell’intimità con la propria moglie, farsi una doccia senza l’assillo dello sguardo del compagno di tenda.
All’Aquila la gente non si nega alle telecamere anche se ha lasciato tra i calcinacci i bei vestiti, che sperava un giorno di sfoggiare in diretta dalla Clerici. I bambini, orfani della Play Station, si entusiasmano per le “carammelle” vinte alle partite di calcetto, i commercialisti, leniti i dissapori atavici, si fregano a tressette come i dopolavoristi del circolo e le signore, sedotte e abbandonate da Carlo Conti, hanno sostituito all’amante catodico la nuova amica seduta al tavolino.
In sei mesi tutti hanno dimenticato i programmi della lavastoviglie e perso dimestichezza con i tasti del cellulare, ma hanno messo in comune una memoria che non si misura in bit ma in ricordi.
Nelle case non c'è niente di buono
appena una porta si chiude dietro a un uomo
succede qualcosa di strano, non c'è niente da fare
è fatale, quell'uomo comincia ad ammuffire.
C'è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza
c'è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza
perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.
Giorgio Gaber. C'è solo la strada
L'amore ai tempi della ricerca
Il New York Times di pochi giorni fa ha cercato di sconfessare l’aforisma agrodolce di Dorothy Parker: “Woman wants monogamy. Man delights in novelty”.
Una ricercatrice di UCLA, Monique Borgerhoff Mulder, ha pubblicato uno studio condotto nei villaggi di Pimbwe, Tanzania, alla scoperta delle abitudini matrimoniali del luogo.
Il lavoro mette in discussione l’idea dell’uomo conquistatore inarrestabile, come un sultano che affastella concubine nel suo letto, e della sua moglie devota, dedita alla crescita dei figli.
Infatti anche le donne sono inclini alla monogamia seriale, cioè inanellano partner uno dopo l’altro, proprio come faceva Liz Taylor nei suoi anni ruggenti. Ma a differenza della Cleopatra per antonomasia, le peripezie familiari delle donne Tanzaniane non sono causate (solo) da irrefrenabile desiderio, ma da una accurata strategia di crescita dei propri figli. Grazie all’allegria sentimentale della madre, i figli finiscono in una cerchia allargata di custodi, padri naturali e acquisiti, tutti disposti a contribuire alla crescita della prole.
I dati empirici danno ragione alle donne poliandre: i loro figli hanno un tasso di sopravvivenza superiore rispetto alla prole delle donne monogame a vita e degli uomini, fedeli e farfalloni che siano.
In più, tra le donne, quelle con il più alto numero di matrimoni alle spalle sono considerate le compagne più affidabili, le lavoratrici più assidue e le madri più premurose. Un totale ribaltamento rispetto ai clichè del mondo Occidentale.
La Cultura Pimbwe è stata troppa perturbata nel corso degli anni dal colonialismo e dalle interferenze del governo per poter rappresentare il paradigma comportamentale dei nostri avi. Tuttavia può proporre a noi e ai nostri discendenti una soluzione per sfuggire alla maggior parte dei danni dei matrimoni, pur mantenendo il fascino che i contratti apparentemente emanano: (re)introdurre le unioni a tempo determinato. In fondo basterebbe apporre una piccola, ma provvidenziale modifica nelle promesse nuziali:
“... nella salute o nella malattia, finché morte – o scadenza - non ci separi”.
Una ricercatrice di UCLA, Monique Borgerhoff Mulder, ha pubblicato uno studio condotto nei villaggi di Pimbwe, Tanzania, alla scoperta delle abitudini matrimoniali del luogo.
Il lavoro mette in discussione l’idea dell’uomo conquistatore inarrestabile, come un sultano che affastella concubine nel suo letto, e della sua moglie devota, dedita alla crescita dei figli.
Infatti anche le donne sono inclini alla monogamia seriale, cioè inanellano partner uno dopo l’altro, proprio come faceva Liz Taylor nei suoi anni ruggenti. Ma a differenza della Cleopatra per antonomasia, le peripezie familiari delle donne Tanzaniane non sono causate (solo) da irrefrenabile desiderio, ma da una accurata strategia di crescita dei propri figli. Grazie all’allegria sentimentale della madre, i figli finiscono in una cerchia allargata di custodi, padri naturali e acquisiti, tutti disposti a contribuire alla crescita della prole.
I dati empirici danno ragione alle donne poliandre: i loro figli hanno un tasso di sopravvivenza superiore rispetto alla prole delle donne monogame a vita e degli uomini, fedeli e farfalloni che siano.
In più, tra le donne, quelle con il più alto numero di matrimoni alle spalle sono considerate le compagne più affidabili, le lavoratrici più assidue e le madri più premurose. Un totale ribaltamento rispetto ai clichè del mondo Occidentale.
La Cultura Pimbwe è stata troppa perturbata nel corso degli anni dal colonialismo e dalle interferenze del governo per poter rappresentare il paradigma comportamentale dei nostri avi. Tuttavia può proporre a noi e ai nostri discendenti una soluzione per sfuggire alla maggior parte dei danni dei matrimoni, pur mantenendo il fascino che i contratti apparentemente emanano: (re)introdurre le unioni a tempo determinato. In fondo basterebbe apporre una piccola, ma provvidenziale modifica nelle promesse nuziali:
“... nella salute o nella malattia, finché morte – o scadenza - non ci separi”.
lunedì 31 agosto 2009
Pulp Mission

Inglorious Basterds è la Seconda Guerra Mondiale secondo Quentin Tarantino. Un film spensierato che si permette di riscrivere il destino in nome della passione cinefila e del cinema “di genere”.
Non aspettatevi un film monolitico, uno Schindler in salsa splatter. Immaginate piuttosto un’opera mutevole, che inizia come film di guerra, poi passa allo storico, accenna la commedia e arriva al gangster movie.
La pellicola, che si ispira palesemente a Quella sporca dozzina, spreca le citazioni perché, come ammette lo stesso Quentin, “I grandi artisti rubano”.
La sceneggiatura intreccia due storie che si riuniscono nel finale. La “pulp mission” di un manipolo di soldati giudaico-americani paracadutati nella Francia occupata per uccidere, e scalpare, i Nazisti, sotto la guida di Aldo «l' apache» (Brad Pitt) che con forte accento del Tennesse istruisce i suoi col motto “The Nazis need to be deeeestroyed”. E la storia introspettiva di una ebrea sopravvissuta al massacro della propria famiglia, assetata di vendetta contro il regime di Hitler.
Su tutto spicca l’interpretazione poliedrica di Christoph Waltz, nel ruolo dell’ ufficiale nazista Hans Landa, il vero protagonista, così sofisticato da parlare fluentemente quattro lingue, compreso l’italiano.
Tarantino regala due spunti di interesse.
Il primo è il tema tabù della vendetta del popolo Ebraico ai danni dei loro persecutori. Dopo sessant’anni, il cinema a senso unico che ha quasi ignorato le insurrezioni del Ghetto di Varsavia e le truppe di volontari Ebrei nell’esercito Sovietico concentrandosi sul sorriso triste di Anna Frank, dà anche un’altra versione dei fatti: non sono più i Nazisti i carnefici e gli Ebrei le inermi vittime. Così Tarantino si pone sulla scia di altri due recenti film “revisionisti”: Defiance, che narra di una comunità ebraica rifugiata in Bielorussia e Munich che ripercorre gli sforzi di Israele per assassinare i terroristi di Monaco ’72.
I tempi sono cambiati. La nuova immagine di Israele è quella di uno Stato militare potente che, dopo le recenti dimostrazioni di forza contro i suoi vicini, ha dimostrato (volenti o nolenti) di spadroneggiare con il supporto americano in Medio Oriente.
Il secondo spunto riguarda l’ambizione dello stesso Tarantino che legge la storia come una grande epopea criminale, un thriller. Dove Spielberg non si sognerebbe mai di proiettare uno schiavo di Hitler che tira fucilate sui tedeschi o Benigni di mostrare l' ebreo che frega il kapò, lì emerge la fantasia di Tarantino che filma dita infilate nella carne, scalpi scotennati e crani martoriati da randellate. Alla fine, la sua rilettura è così accurata e psicologicamente soddisfacente da rendere i Bastardi Senza Gloria onesti rivali dei loro predecessori cinematografici.
Tarantino, giunto alla maturità, sente la sua personalità più forte delle sue stesse opere. Per questo cerca di rinnovare i canoni del film di guerra che ha innalzato alla gloria i più grandi registi della storia recente: il Coppola di Apocalypse Now, il Kubrick di Full Metal Jacket, lo Stone di Platoon e lo Spielberg di Salvate il soldato Ryan.
La guerra è il momento culminante dei valori di una nazione perché, come diceva Eisenhower, “non fa spendere solo soldi, spende anche il sudore dei suoi lavoratori, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi bambini”. E, perché no, frutta il picco d’ incassi e di fama ai suoi narratori.
venerdì 28 agosto 2009
Beograd, stvarno najbolje!
Per Predrag i viaggi si programmano in una manciata di minuti. È sempre stato abituato a prendere un aereo o un treno dalla sera alla mattina, sin dai tempi in cui faceva la spola tra Belgrado e Roma, per un piacevolissimo motivo: la fidanzata italiana.
“Dai, se vuoi andiamo a Belgrado, così faccio una sorpresa ai miei genitori”. Non li vede da mesi. Sei o sette. E siccome non ha perso l’istinto dell’esploratore, nemmeno alla soglia dei trent’anni, mi propone un viaggio a tappe. Da Vienna a Bratislava in treno. E poi in bus fino a Budapest, giusto il tempo di mettere la bandierina su un’altra sponda del Danubio. Infine il treno notturno per la capitale serba. Arrivo previsto alle 6.15 del giorno successivo. “Tanto mio padre si sveglia presto”.
Ci penso su. Il prezzo del viaggio fa impallidire un Milano-Roma in seconda classe Espresso … e poi non posso mica passare per pantofolaio al cospetto di un trentenne. Così accetto la proposta in un’altra manciata di minuti.
Il destino del viaggio si gioca su pochi giri di lancette. Alla stazione di Vienna Predrag sta per far saltare il calibratissimo ingranaggio di coincidenze che abbiamo architettato. Si presenta alla stazione appena in tempo per farsi rimproverare e trascinare di peso al binario 2. È l’unico brivido di una mattina che trascorre tranquilla sui lunghi rettilinei della grande pianura Pannonia arsi dal sole.
Chi ha visto in tv di sfuggita l’Ungheria degli anni Ottanta, intristita dal Comunismo, è felice di trovarla indaffarata e impaziente, orgogliosa dei fiumi di investimenti dall’estero. È bello vedere gli ungheresi seduti sul bus passare con spensieratezza accanto al cartello della frontiera con le stelle dell’Unione Europea. La dogana e il visto sul passaporto fan parte dei ricordi.
Budapest, però, soffre degli stessi peccati di gioventù della nuova Europa. Ha concentrato gli sforzi sul centro storico per renderlo appetibile ai gusti dei turisti occidentali, dimenticando i quartieri popolari dove la gente comune vive ancora in un fastidioso degrado. In centro hanno installato internet sul wi-fi gratuito del servizio Pannonia.com (che originalità …), ma in periferia decine di barboni si aggirano tra i cassonetti in cerca di cibo.
La capitale magiara si divide tra le due sponde del Danubio: Buda e Pest. La prima, cuore storico della città, sorge su una collina che le divinità degli Unni posero strategicamente a guardia del Danubio per renderla presidio ideale del popolo di Attila. La seconda, ben più popolosa, ospita buona parte delle vie di tendenza, tra cui una supponente “Fashion Street” che strizza l’occhio ai nostalgici di Via Montenapoleone.
Trascorso il pomeriggio nel festival del folkore ungherese, allestito nelle viuzze del centro, torniamo alla stazione. Nella biglietteria malconcia, simile ai vecchi saloon western, gli impiegati compilano ancora i biglietti a mano, con carta copiativa e penna biro vecchio stile, in onore al celebre inventore che nacque da queste parti.
Sul treno Predrag inizia a riprendere confidenza con la sua terra. Entrano nella carrozza due distinti ragazzi serbi, appassionati di vecchi fumetti cult e dalla sciolta parlata inglese. Vengono da Amsterdam e tornano a casa per le vacanze. Passano al serbo quando il sonno incombente rende difficile esprimersi nella lingua straniera. Snocciolano discorsi incomprensibili da cui riesco ad estrarre solo qualche frammento: Kosovo, Milosevic, Unione Europea. Facile intuire il senso delle loro parole. A Predrag e agli altri non va proprio giù l’isolamento in cui la loro nazione è finita dopo la guerra del ’99. Hanno una gran voglia di entrare nel circolo dell’Europa che conta ma qualche scheletro nell’armadio e questioni geopolitiche glielo impediscono. I ragionamenti si fanno più tesi quando, alla frontiera tra Ungheria e Serbia, mi basta mostrare il passaporto per ricevere il timbro del visto d’ingresso mentre loro, cittadini extra-EU, subiscono lo smacco di essere controllati dalla polizia ungherese in contatto telefonico con l’Interpol.
Il giorno arriva a Belgrado. L’aria pungente del mattino si stempera con i primi raggi di sole che svelano i segni delle guerre. Alcuni palazzi in centro, un tempo sedi di ministeri e accademie militari, sono ancora sventrati. Le voragini dei palazzi di Milosevic mi scuotono. Vedere dal vivo quegli spaventosi crateri è ben altra cosa rispetto ad osservare le immagini dei bombardamenti da casa. Per i belgradesi, però, sono solo elementi del paesaggio urbano, innocue rovine storiche a cui si sono abituati. Il bus attraversa Belgrado, prima nel centro, dove nove anni fa due milioni di persone, tra cui Predrag e i suoi amici, rovesciarono Milosevic, poi nei sobborghi, dove sorgono gli stadi della Stella Rossa (il mitico Maracàna) e del Partizan, un tempo infuocati catini delle sfide di Coppa dei Campioni, oggi relitti fatiscenti della gloria passata. Saliamo su una collina costellata di piccole ville monofamiliari. Qui abita la piccola borghesia. Il papà di Predrag, Danilo Krstic, sta innaffiando i fiori sul terrazzo in pantaloncini. “Tatà” gli sussurra il mio compagno di viaggio, con voce frenata dall’emozione. Il padre lancia uno sguardo sospettoso verso la strada e ricambia con un timido “Pedja”. Sembra corrucciato, ma sono scherzi della gioia: “Fa sempre così – mi tranquillizza Predrag - Nasconde le emozioni ma dentro di sé è felice”.
La mamma di Predrag, Dragica, non è in casa. Lavora nel Kosovo settentrionale, a maggioranza serba. Da pochi mesi si è trasferita in un laboratorio di microbiologia. Il primo pensiero del signor Danilo va a lei: “Dobbiamo assolutamente chiamarla”. Come consuetudine dei Krstic, tutto si decide in una manciata di minuti: rapido giro di telefonate tra Belgrado e il Kosovo e la signora Dragica si mette immediatamente sulla strada del ritorno. Intanto Tatà Danilo si ispira alla parabola del Figliol Prodigo e scongela la deliziosa carne di cervo che conserva per le occasioni importanti.
Sono da poco passate le 2 del pomeriggio quando la signora Dragica torna a casa. “Madre non ci crede ancora che sono arrivato” dice in un italiano un pò stentato Predrag, emozionato, prestando la spalla all’ennesima pacca della signora incredula.
Si siedono sul divano e si tuffano nei ricordi di famiglia. Dagli album fotografici escono i pettorali virili di Predrag tredicenne in posa da culturista, i basettoni di un giovane Danilo, gli occhi vispi del fratello Nenad, talento dell’animazione, in trasferta in Ungheria.
Le due giornate in trasferta serba filano via veloci come le ruote della Renault Clio dei Krstic lungo le strade di Belgrado: dalle spiagge lungo la Sava al Monte Avala, dal castello medievale che sorveglia la città ai battelli sul Danubio, dove si raduna il tifo tennistico per l’idolo della nazione, Nole Djokovic.
Lunedì mattina ci attende la partenza e una nuova sorpresa: Nenad è tornato dal lago Balaton, carico di valigie e di idee da concretizzare nei suoi disegni. Ci incontriamo davanti la stazione. Chi è appena sceso dal treno e chi sta per salirci. Predrag mi incita a recitare i motti che ho imparato con i suoi amici e insieme insceniamo il famoso spot di Mancini e Mihajlovic che esaltano la “migliore birra” nazionale -“Pils stvarno najbolje!”- per convincere il fratellino che due giorni ad insegnarmi il serbo non sono passati invano.
Il nostro treno sta per partire. Vienna ci attende. Il ricongiungimento familiare dura il tempo di qualche confidenza sussurrata e di rapidi flash fotografici. Una manciata di minuti in tutto. Si fa così a casa Krstic, no?
“Dai, se vuoi andiamo a Belgrado, così faccio una sorpresa ai miei genitori”. Non li vede da mesi. Sei o sette. E siccome non ha perso l’istinto dell’esploratore, nemmeno alla soglia dei trent’anni, mi propone un viaggio a tappe. Da Vienna a Bratislava in treno. E poi in bus fino a Budapest, giusto il tempo di mettere la bandierina su un’altra sponda del Danubio. Infine il treno notturno per la capitale serba. Arrivo previsto alle 6.15 del giorno successivo. “Tanto mio padre si sveglia presto”.
Ci penso su. Il prezzo del viaggio fa impallidire un Milano-Roma in seconda classe Espresso … e poi non posso mica passare per pantofolaio al cospetto di un trentenne. Così accetto la proposta in un’altra manciata di minuti.
Il destino del viaggio si gioca su pochi giri di lancette. Alla stazione di Vienna Predrag sta per far saltare il calibratissimo ingranaggio di coincidenze che abbiamo architettato. Si presenta alla stazione appena in tempo per farsi rimproverare e trascinare di peso al binario 2. È l’unico brivido di una mattina che trascorre tranquilla sui lunghi rettilinei della grande pianura Pannonia arsi dal sole.
Chi ha visto in tv di sfuggita l’Ungheria degli anni Ottanta, intristita dal Comunismo, è felice di trovarla indaffarata e impaziente, orgogliosa dei fiumi di investimenti dall’estero. È bello vedere gli ungheresi seduti sul bus passare con spensieratezza accanto al cartello della frontiera con le stelle dell’Unione Europea. La dogana e il visto sul passaporto fan parte dei ricordi.
Budapest, però, soffre degli stessi peccati di gioventù della nuova Europa. Ha concentrato gli sforzi sul centro storico per renderlo appetibile ai gusti dei turisti occidentali, dimenticando i quartieri popolari dove la gente comune vive ancora in un fastidioso degrado. In centro hanno installato internet sul wi-fi gratuito del servizio Pannonia.com (che originalità …), ma in periferia decine di barboni si aggirano tra i cassonetti in cerca di cibo.
La capitale magiara si divide tra le due sponde del Danubio: Buda e Pest. La prima, cuore storico della città, sorge su una collina che le divinità degli Unni posero strategicamente a guardia del Danubio per renderla presidio ideale del popolo di Attila. La seconda, ben più popolosa, ospita buona parte delle vie di tendenza, tra cui una supponente “Fashion Street” che strizza l’occhio ai nostalgici di Via Montenapoleone.
Trascorso il pomeriggio nel festival del folkore ungherese, allestito nelle viuzze del centro, torniamo alla stazione. Nella biglietteria malconcia, simile ai vecchi saloon western, gli impiegati compilano ancora i biglietti a mano, con carta copiativa e penna biro vecchio stile, in onore al celebre inventore che nacque da queste parti.
Sul treno Predrag inizia a riprendere confidenza con la sua terra. Entrano nella carrozza due distinti ragazzi serbi, appassionati di vecchi fumetti cult e dalla sciolta parlata inglese. Vengono da Amsterdam e tornano a casa per le vacanze. Passano al serbo quando il sonno incombente rende difficile esprimersi nella lingua straniera. Snocciolano discorsi incomprensibili da cui riesco ad estrarre solo qualche frammento: Kosovo, Milosevic, Unione Europea. Facile intuire il senso delle loro parole. A Predrag e agli altri non va proprio giù l’isolamento in cui la loro nazione è finita dopo la guerra del ’99. Hanno una gran voglia di entrare nel circolo dell’Europa che conta ma qualche scheletro nell’armadio e questioni geopolitiche glielo impediscono. I ragionamenti si fanno più tesi quando, alla frontiera tra Ungheria e Serbia, mi basta mostrare il passaporto per ricevere il timbro del visto d’ingresso mentre loro, cittadini extra-EU, subiscono lo smacco di essere controllati dalla polizia ungherese in contatto telefonico con l’Interpol.
Il giorno arriva a Belgrado. L’aria pungente del mattino si stempera con i primi raggi di sole che svelano i segni delle guerre. Alcuni palazzi in centro, un tempo sedi di ministeri e accademie militari, sono ancora sventrati. Le voragini dei palazzi di Milosevic mi scuotono. Vedere dal vivo quegli spaventosi crateri è ben altra cosa rispetto ad osservare le immagini dei bombardamenti da casa. Per i belgradesi, però, sono solo elementi del paesaggio urbano, innocue rovine storiche a cui si sono abituati. Il bus attraversa Belgrado, prima nel centro, dove nove anni fa due milioni di persone, tra cui Predrag e i suoi amici, rovesciarono Milosevic, poi nei sobborghi, dove sorgono gli stadi della Stella Rossa (il mitico Maracàna) e del Partizan, un tempo infuocati catini delle sfide di Coppa dei Campioni, oggi relitti fatiscenti della gloria passata. Saliamo su una collina costellata di piccole ville monofamiliari. Qui abita la piccola borghesia. Il papà di Predrag, Danilo Krstic, sta innaffiando i fiori sul terrazzo in pantaloncini. “Tatà” gli sussurra il mio compagno di viaggio, con voce frenata dall’emozione. Il padre lancia uno sguardo sospettoso verso la strada e ricambia con un timido “Pedja”. Sembra corrucciato, ma sono scherzi della gioia: “Fa sempre così – mi tranquillizza Predrag - Nasconde le emozioni ma dentro di sé è felice”.
La mamma di Predrag, Dragica, non è in casa. Lavora nel Kosovo settentrionale, a maggioranza serba. Da pochi mesi si è trasferita in un laboratorio di microbiologia. Il primo pensiero del signor Danilo va a lei: “Dobbiamo assolutamente chiamarla”. Come consuetudine dei Krstic, tutto si decide in una manciata di minuti: rapido giro di telefonate tra Belgrado e il Kosovo e la signora Dragica si mette immediatamente sulla strada del ritorno. Intanto Tatà Danilo si ispira alla parabola del Figliol Prodigo e scongela la deliziosa carne di cervo che conserva per le occasioni importanti.
Sono da poco passate le 2 del pomeriggio quando la signora Dragica torna a casa. “Madre non ci crede ancora che sono arrivato” dice in un italiano un pò stentato Predrag, emozionato, prestando la spalla all’ennesima pacca della signora incredula.
Si siedono sul divano e si tuffano nei ricordi di famiglia. Dagli album fotografici escono i pettorali virili di Predrag tredicenne in posa da culturista, i basettoni di un giovane Danilo, gli occhi vispi del fratello Nenad, talento dell’animazione, in trasferta in Ungheria.
Le due giornate in trasferta serba filano via veloci come le ruote della Renault Clio dei Krstic lungo le strade di Belgrado: dalle spiagge lungo la Sava al Monte Avala, dal castello medievale che sorveglia la città ai battelli sul Danubio, dove si raduna il tifo tennistico per l’idolo della nazione, Nole Djokovic.
Lunedì mattina ci attende la partenza e una nuova sorpresa: Nenad è tornato dal lago Balaton, carico di valigie e di idee da concretizzare nei suoi disegni. Ci incontriamo davanti la stazione. Chi è appena sceso dal treno e chi sta per salirci. Predrag mi incita a recitare i motti che ho imparato con i suoi amici e insieme insceniamo il famoso spot di Mancini e Mihajlovic che esaltano la “migliore birra” nazionale -“Pils stvarno najbolje!”- per convincere il fratellino che due giorni ad insegnarmi il serbo non sono passati invano.
Il nostro treno sta per partire. Vienna ci attende. Il ricongiungimento familiare dura il tempo di qualche confidenza sussurrata e di rapidi flash fotografici. Una manciata di minuti in tutto. Si fa così a casa Krstic, no?
mercoledì 26 agosto 2009
Coincidenze
Per qualche tempo non ci saranno serate al Qube, sede del Muccassassina, celebre festa gay di Roma. La scorsa notte qualche “scalmanato” ha infranto i vetri dell’ingresso e gettato liquido infiammabile per provocare un'incendio.
Evidentemente i teppisti non hanno gradito l’arresto di Alessandro Sardelli, noto con il soprannome di Svastichella, accusato di aver aggredito due ragazzi gay pochi giorni fa.
Proprio ieri sul New York Times, uno dei più autorevoli quotidiani americani, ho letto le partecipazioni di nozze di due donne. Sotto l’annuncio c’erano le due brevi biografie e i reciproci messaggi d’amore.
In qualche posto nel mondo i sentimenti sono già al riparo dalla violenza cieca dell'ignoranza.
Evidentemente i teppisti non hanno gradito l’arresto di Alessandro Sardelli, noto con il soprannome di Svastichella, accusato di aver aggredito due ragazzi gay pochi giorni fa.
Proprio ieri sul New York Times, uno dei più autorevoli quotidiani americani, ho letto le partecipazioni di nozze di due donne. Sotto l’annuncio c’erano le due brevi biografie e i reciproci messaggi d’amore.
In qualche posto nel mondo i sentimenti sono già al riparo dalla violenza cieca dell'ignoranza.
giovedì 20 agosto 2009
Vanità al potere
Ennesima “esclusiva”di Chi , diretto da Alfonso Signorini, al presidente Berlusconi che posa con i tre figli avuti da Veronica Lario.
Le interviste riparatrici al premier sono la consuetudine del più popolare giornale di gossip del gruppo Mondadori, proprietà della famiglia Berlusconi. Si stenta ormai a chiamare “esclusiva” un altro servizio “fai-da-te” che corre in soccorso del presidente farfallone arenatosi tra i sospetti sulla sua vita privata.
Intendiamoci, la propaganda di governo va forte anche all’estero: solo pochi giorni fa Putin in versione “Attila” sfoggiava muscoli imbolsiti alle prese con il lavoro della campagna in un servizio fotografico palesemente pilotato.
Tuttavia il caso italiano ha qualche peculiarità: il giornale popolare non è subordinato alla volontà del potente, ne è anzi la spalla strategica e complice. Signorini non è solo il colto cortigiano incaricato di veicolare l’immagine del leader al popolo, è il regista di una nuova poetica della propaganda, lo spin doctor della famiglia Berlusconi, unico giornalista a sedere tavolo degli sposi al matrimonio del suo editore, Marina B.
In un Paese che stenta a riconoscersi nelle istituzioni, Chi si é dimostrato negli anni il giornale più istituzionale, l’equivalente di Porta a Porta nella carta stampata. Con una lunga serie di servizi ed edizioni speciali, Signorini ha tracciato il ritratto agiografico del mito berlsconiano, dagli esordi canori al compassato ruolo di capofamiglia, attorniato dai discendenti e illuminato da una splendente cornice patinata.
Signorini è più di un potente direttore, è arbitro inappellabile dello stile di tendenza. Dal suo osservatorio del gossip determina chi sale e chi scende nel borsino delle celebrità, stila le gerarchie dello spettacolo come Stalin assegnava le poltrone sugli spalti della Piazza Rossa il 9 Novembre.
Rilancia l’immagine degli imprenditori reduci da pallide performance manageriali con foto scattate accanto a splendide donne in kermesse esclusive.
Convince addirittura i politci di sinistra, storicamente lontani dal richiamo dei lustrini, dell’appeal elettorale delle foto posate in famiglia.
Ogni epoca ha avuto artisti impegnati nella sublimazione dell’immagine del condottiero: dietro i poemi di Virgilio si nascondeva il progetto politico di Augusto e l’arte di Jacques Louis David era funzionale alle ambizioni di Napoleone.
Nel XXI secolo, la crescita del benessere si accompagna all’esaltazione del superfluo, ormai non più percepito come frutto del degrado morale bensì come cardine della società industriale. Alfonso Signorini, fabbricatore smaliziato dell’estetica dell’apparenza, ha contribuito a sdoganare il superfluo, anzi a trasformarlo in arte.
Le interviste riparatrici al premier sono la consuetudine del più popolare giornale di gossip del gruppo Mondadori, proprietà della famiglia Berlusconi. Si stenta ormai a chiamare “esclusiva” un altro servizio “fai-da-te” che corre in soccorso del presidente farfallone arenatosi tra i sospetti sulla sua vita privata.
Intendiamoci, la propaganda di governo va forte anche all’estero: solo pochi giorni fa Putin in versione “Attila” sfoggiava muscoli imbolsiti alle prese con il lavoro della campagna in un servizio fotografico palesemente pilotato.
Tuttavia il caso italiano ha qualche peculiarità: il giornale popolare non è subordinato alla volontà del potente, ne è anzi la spalla strategica e complice. Signorini non è solo il colto cortigiano incaricato di veicolare l’immagine del leader al popolo, è il regista di una nuova poetica della propaganda, lo spin doctor della famiglia Berlusconi, unico giornalista a sedere tavolo degli sposi al matrimonio del suo editore, Marina B.
In un Paese che stenta a riconoscersi nelle istituzioni, Chi si é dimostrato negli anni il giornale più istituzionale, l’equivalente di Porta a Porta nella carta stampata. Con una lunga serie di servizi ed edizioni speciali, Signorini ha tracciato il ritratto agiografico del mito berlsconiano, dagli esordi canori al compassato ruolo di capofamiglia, attorniato dai discendenti e illuminato da una splendente cornice patinata.
Signorini è più di un potente direttore, è arbitro inappellabile dello stile di tendenza. Dal suo osservatorio del gossip determina chi sale e chi scende nel borsino delle celebrità, stila le gerarchie dello spettacolo come Stalin assegnava le poltrone sugli spalti della Piazza Rossa il 9 Novembre.
Rilancia l’immagine degli imprenditori reduci da pallide performance manageriali con foto scattate accanto a splendide donne in kermesse esclusive.
Convince addirittura i politci di sinistra, storicamente lontani dal richiamo dei lustrini, dell’appeal elettorale delle foto posate in famiglia.
Ogni epoca ha avuto artisti impegnati nella sublimazione dell’immagine del condottiero: dietro i poemi di Virgilio si nascondeva il progetto politico di Augusto e l’arte di Jacques Louis David era funzionale alle ambizioni di Napoleone.
Nel XXI secolo, la crescita del benessere si accompagna all’esaltazione del superfluo, ormai non più percepito come frutto del degrado morale bensì come cardine della società industriale. Alfonso Signorini, fabbricatore smaliziato dell’estetica dell’apparenza, ha contribuito a sdoganare il superfluo, anzi a trasformarlo in arte.
martedì 18 agosto 2009
Twisted words

Da ieri i Radiohead regalano un brano inedito sul loro sito ufficiale. La canzone, l’oscura These Are My Twisted Words, segue di pochi giorni Harry Patch (In Memory Of), inedito dedicato ad un veterano della Prima Guerra Mondiale, disponibile online al prezzo di un euro.
Queste iniziative non sono inedite per il gruppo di Oxford. Due anni fa avevano sconvolto il mondo discografico mettendo in rete il loro disco “In Rainbows” in modalità "up to you", cioè lasciando decidere all’acquirente quanto pagare. Nonostante una cospicua parte dei fan non avesse versato nemmeno un centesimo, l’operazione si rivelò mediaticamente fragorosa ed economicamente vantaggiosa per la band: circa 3 milioni di copie vendute, ripartite quasi equamente tra download e acquisti della versione fisica del disco, realizzata pochi mesi dopo quella virtuale.
E ora? Dalle parole di Thom Yorke al mensile The Believer sembra che i Radiohead vogliano continuare a rivolgersi direttamente al loro pubblico, ormai ampiamente fidelizzato.
Dietro questo progetto non c’è solo l’interesse economico ma anche il tentativo di scompaginare ulteriormente il settore discografico, con il supporto della tecnologia che ormai ha privato di ogni utilità i supporti tradizionali, come i CD.
La diffusione dei file MP3 e dei lettori digitali da dieci anni a questa parte avrebbe permesso ad ogni musicista di liberarsi dei vincoli contrattuali con le case discografiche e offrire musica al proprio pubblico senza interposizioni. Ma pochissimi artisti l’hanno fatto, per giunta criticati dalla maggioranza dei colleghi e osteggiati dalle stesse major.
Perché? Probabilmente molti avevano già deposto le armi prima di iniziare la battaglia, credendo il nemico Peer-to-peer troppo radicato tra i giovani consumatori di musica e affidando le uniche speranze di guadagno ai concerti, le cui entrate sono triplicate negli ultimi 5 anni.
E’ paradossale che siano proprio i Radiohead a portare il vessillo dell’innovazione digitale. Non piú di cinque anni fa impedirono ad Apple di vendere separatamente i brani dell’album Kid A sull’allora neonato I-Tunes. “Estrarre un brano dall’intero lavoro significa privare di senso il brano stesso”. Ora Yorke rifugge addirittura dall'idea di concepire un disco: “Nessuno di noi vuole finire di nuovo in quel caos creativo”. Twisted words, appunto.
I Radiohead hanno cambiato rotta così radicalmente perché hanno capito che la rivoluzione non implica solo un cambiamento nella distribuzione, ma anche nella concezione stessa della musica: i fruitori non sono più abituati ad ascoltare un intero album, figurarsi a comprarlo.
Nessuno puó intuire le sue prossime mosse dell’imperscrutabile mente di Yorke & soci, né stabilire se il loro sia il modello vincente nel mercato musicale del futuro. Di certo, tra qualche anno, il progetto dei Radiohead sarà considerato, al pari della loro opera, una pietra miliare della musica di inizio millennio.
Woodstock non é solo un pennuto
In questi giorni non posso non provare un pó d'invidia per la ribelle generazione dei baby boomers che festeggia Woodstock. Dannazione, loro hanno troppe occasioni per dire “Io c’ero…”. Solo un mese fa ho sentito un sacco di presbiti demodè ricordare lo sbarco sulla Luna che hanno vissuto con il trasporto di ragazzi affascinati. La mia generazione invece non ha un arrivo su Marte da raccontare e pensa che Woodstock sia l’uccellino di Snoopy.
Nessuno dei miei coetanei “ottantini” ha nel proprio i-pod Janis Joplin e The Band e proprio non capisce perché i suoi genitori debbano spacciare un concerto di reliquie musicali come un mito generazionale. Non hanno del tutto torto a pensare che la rievocazione di quel concerto, a quarant’anni di distanza, sia una stanca ricorrenza per dirigenti e impiegati brizzolati, ormai dimentichi dei loro fervori giovanili: Woodstock non è stato il primo grande raduno rock, né il più affollato, non ospitò i Beatles e i Rolling Stones, e non si tenne nemmeno a Woodstock, bensì a Bethel, un villaggio di contadini e allevatori di maiali.
Ma allora, è stato un bluff?
I sessantenni accorsi sul mitico anfiteatro naturale nello stato di NY in occasione dell’anniversario, hanno abbandonato i toni di genitori ansiosi al tempo della crisi e hanno pronunciato parole commosse, nostalgiche : “I was stoned when I got here. The music was almost secondary to the experience of just being here”.
Non solo rock, dunque. Woodstock rimane nella memoria perché celebrò una gioventù nuova, ispirata dalla pace e dai sentimenti universali e mantenne fede al suo slogan: “Tre giorni di pace e musica”.
All’indomani degli attentati dei Kennedy e di Martin Luther King, delle barbarie di Charles Manson, delle stragi in Vietnam, tutto filò liscio. Nonostante l’assenza di servizi igienici, la pioggia insistente, lo scarso cibo, compensato da acidi in abbondanza, i ragazzi mantennero un decoro che colse di sorpresa l’establishment: Barnard Collier, inviato del New York Times, dovette lottare non poco con la redazione perché non fosse taciuto il carattere pacifico e ordinato della manifestazione.
E poi la musica, nutrimento della generazione hippie, che credeva nell’avvento dell’Era dell’Acquario e faceva uso di droghe per espandere la coscienza. La musica rispecchiava il desiderio di infrangere gli schemi, al pari della filosofia di Marcuse, delle poesie di Ferlinghetti e dei romanzi di Kerouac che tenevano banco a Berkley e nelle altre università americane. Proprio a metà anni ’60 iniziò ad assumere sonorità variegate e sorprendenti: dal country di Crosby, Stills e Nash al blues elettrico di Jimi Hendrix, dai suoni psichedelici dei Jefferson Airplane al rock degli Who. Tutti presenti su quel palco, a cavallo del Ferragosto ’69.
Ancora oggi Woodstock stimola le più accese diatribe tra chi lo vede come un curioso matrimonio tra cultura hippy e capitalismo (Woodstock Venture, la società costituita allora dai quattro organizzatori continua a garantire ai fondatori lauti guadagni) e chi ne celebra l’identità culturale, le icone, gli inni.
Fu con quel concerto che la gioventù del dopoguerra arrivò allo zenit autocelebrativo, preludio del declino : da quel momento lo "hippismo" divenne vulnerabile alle imitazioni e alle banalizzazioni che trasformarono lo spirito ribelle di una generazione in puro dato stilistico.
La questione se sia giusto celebrare il culto di Woodstock non si pone: va ricordato come ogni storico evento di costume, cioè come momento di sintesi di valori e culture. E a commemorarlo non devono essere solo i nostalgici sessantenni occhialuti che ebbero la fortuna di viverlo da contemporanei, ma tutti quelli che, a distanza di anni, si sono entusiasmati con le immagini sgranate eppur vivide dell’evento rock per eccellenza.
Nessuno dei miei coetanei “ottantini” ha nel proprio i-pod Janis Joplin e The Band e proprio non capisce perché i suoi genitori debbano spacciare un concerto di reliquie musicali come un mito generazionale. Non hanno del tutto torto a pensare che la rievocazione di quel concerto, a quarant’anni di distanza, sia una stanca ricorrenza per dirigenti e impiegati brizzolati, ormai dimentichi dei loro fervori giovanili: Woodstock non è stato il primo grande raduno rock, né il più affollato, non ospitò i Beatles e i Rolling Stones, e non si tenne nemmeno a Woodstock, bensì a Bethel, un villaggio di contadini e allevatori di maiali.
Ma allora, è stato un bluff?
I sessantenni accorsi sul mitico anfiteatro naturale nello stato di NY in occasione dell’anniversario, hanno abbandonato i toni di genitori ansiosi al tempo della crisi e hanno pronunciato parole commosse, nostalgiche : “I was stoned when I got here. The music was almost secondary to the experience of just being here”.
Non solo rock, dunque. Woodstock rimane nella memoria perché celebrò una gioventù nuova, ispirata dalla pace e dai sentimenti universali e mantenne fede al suo slogan: “Tre giorni di pace e musica”.
All’indomani degli attentati dei Kennedy e di Martin Luther King, delle barbarie di Charles Manson, delle stragi in Vietnam, tutto filò liscio. Nonostante l’assenza di servizi igienici, la pioggia insistente, lo scarso cibo, compensato da acidi in abbondanza, i ragazzi mantennero un decoro che colse di sorpresa l’establishment: Barnard Collier, inviato del New York Times, dovette lottare non poco con la redazione perché non fosse taciuto il carattere pacifico e ordinato della manifestazione.
E poi la musica, nutrimento della generazione hippie, che credeva nell’avvento dell’Era dell’Acquario e faceva uso di droghe per espandere la coscienza. La musica rispecchiava il desiderio di infrangere gli schemi, al pari della filosofia di Marcuse, delle poesie di Ferlinghetti e dei romanzi di Kerouac che tenevano banco a Berkley e nelle altre università americane. Proprio a metà anni ’60 iniziò ad assumere sonorità variegate e sorprendenti: dal country di Crosby, Stills e Nash al blues elettrico di Jimi Hendrix, dai suoni psichedelici dei Jefferson Airplane al rock degli Who. Tutti presenti su quel palco, a cavallo del Ferragosto ’69.
Ancora oggi Woodstock stimola le più accese diatribe tra chi lo vede come un curioso matrimonio tra cultura hippy e capitalismo (Woodstock Venture, la società costituita allora dai quattro organizzatori continua a garantire ai fondatori lauti guadagni) e chi ne celebra l’identità culturale, le icone, gli inni.
Fu con quel concerto che la gioventù del dopoguerra arrivò allo zenit autocelebrativo, preludio del declino : da quel momento lo "hippismo" divenne vulnerabile alle imitazioni e alle banalizzazioni che trasformarono lo spirito ribelle di una generazione in puro dato stilistico.
La questione se sia giusto celebrare il culto di Woodstock non si pone: va ricordato come ogni storico evento di costume, cioè come momento di sintesi di valori e culture. E a commemorarlo non devono essere solo i nostalgici sessantenni occhialuti che ebbero la fortuna di viverlo da contemporanei, ma tutti quelli che, a distanza di anni, si sono entusiasmati con le immagini sgranate eppur vivide dell’evento rock per eccellenza.
sabato 15 agosto 2009
Vademecum per la spesa austriaca
1. Non parlate inglese al banco degli affettati. Invece di acquistare del pane integrale e del prosciutto di Parma, vi appiopperanno pan carré scaduto e speck slovacco. Consultate il vocabolario di tedesco a casa.
2. Non mettetevi mai in coda dietro una signora di una certa età. Le chiederanno se prende anche una fetta di Emmental anche per suo figlio.
3. Non dimenticate mai di dividere la vostra spesa da quella altrui alla cassa. Senza un separatore sul tapis-roulant le cassiere austriache sono disperate: al contrario delle italiane, non capiscono dove finisce la vostra spesa vegetariana e comincia quella del vecchio alcolista. Correte il rischio di pagare il conto di un’intera distilleria.
4. Non abbiate soggezione delle cassiere austriache se vi fissano con lo stesso disprezzo con cui le donne nostrane osservano i calzini bianchi: hanno lo sguardo torvo anche al battesimo del figlio.
5. Portate sempre la busta della spesa da casa. Non la vendono alla cassa, come in Italia, ma a 3 cm da terra, incastrate tra il dispenser dei chewing gum e il frigo dei gelati. Quando ve ne ricordate è sempre troppo tardi per andare a recuperarla dietro la barriera di carrelli degli altri clienti.
6. Comprate tutto in pacchi da sei pezzi, solidi e compatti. Sono le uniche cose di cui le cassiere sanno rintracciare il codice a barre senza arrivare alla calende greche. Dimenticate quindi le buste di mele sfuse che si muovono come le palline del flipper o le bottiglie di aceto a forma del Mercurio di Giambologna.
7. Non mostrate mai una carta di credito straniera. Scuoteranno il capo, digrigneranno i denti, ed emetteranno il responso: “Bar Zahlen”. “Pagare in cash (se non vuoi che ti sguinzaglio il tipo della security)”.
8. Non pagate con meno di cinquanta euro, per non dare meno di quanto dovuto. Non pronunciano mai il prezzo o lo fanno in modo incomprensibile con il display rivolto verso di loro.
9. Non arrabbiatevi se le cassiere sparano i vostri acquisti agli angoli dello scivolo con la precisione di un giocatore di biliardo. Tutti gli articoli hanno la resistenza della gomma Meliconi, dalle bottiglie in vetro alle primizie di pomodori. Il motivo è ignoto.
10. Se poi ne avete abbastanza del supermercato austriaco, andate al ristorante. Italiano!
2. Non mettetevi mai in coda dietro una signora di una certa età. Le chiederanno se prende anche una fetta di Emmental anche per suo figlio.
3. Non dimenticate mai di dividere la vostra spesa da quella altrui alla cassa. Senza un separatore sul tapis-roulant le cassiere austriache sono disperate: al contrario delle italiane, non capiscono dove finisce la vostra spesa vegetariana e comincia quella del vecchio alcolista. Correte il rischio di pagare il conto di un’intera distilleria.
4. Non abbiate soggezione delle cassiere austriache se vi fissano con lo stesso disprezzo con cui le donne nostrane osservano i calzini bianchi: hanno lo sguardo torvo anche al battesimo del figlio.
5. Portate sempre la busta della spesa da casa. Non la vendono alla cassa, come in Italia, ma a 3 cm da terra, incastrate tra il dispenser dei chewing gum e il frigo dei gelati. Quando ve ne ricordate è sempre troppo tardi per andare a recuperarla dietro la barriera di carrelli degli altri clienti.
6. Comprate tutto in pacchi da sei pezzi, solidi e compatti. Sono le uniche cose di cui le cassiere sanno rintracciare il codice a barre senza arrivare alla calende greche. Dimenticate quindi le buste di mele sfuse che si muovono come le palline del flipper o le bottiglie di aceto a forma del Mercurio di Giambologna.
7. Non mostrate mai una carta di credito straniera. Scuoteranno il capo, digrigneranno i denti, ed emetteranno il responso: “Bar Zahlen”. “Pagare in cash (se non vuoi che ti sguinzaglio il tipo della security)”.
8. Non pagate con meno di cinquanta euro, per non dare meno di quanto dovuto. Non pronunciano mai il prezzo o lo fanno in modo incomprensibile con il display rivolto verso di loro.
9. Non arrabbiatevi se le cassiere sparano i vostri acquisti agli angoli dello scivolo con la precisione di un giocatore di biliardo. Tutti gli articoli hanno la resistenza della gomma Meliconi, dalle bottiglie in vetro alle primizie di pomodori. Il motivo è ignoto.
10. Se poi ne avete abbastanza del supermercato austriaco, andate al ristorante. Italiano!
giovedì 13 agosto 2009
Alinejad
Alinejad Masih fa la giornalista in Iran, dove quaranta colleghi sono in carcere dal giorno del voto, il 12 giugno, per aver testimoniato le rivolte contro la vittoria di Ahmadinejad. Sogna di intervistare il Presidente degli Stati Uniti, che dal governo Iraniano sono osteggiati con odio e da trent’anni non hanno nessuna rappresentanza diplomatica a Teheran.
La sua attività è turbata continuamente dalle angherie dei sostenitori del regime e delle autorità. Interrogatori, auto distrutte e casa violata il giorno delle elezioni. In Iran, infatti, la conoscono bene: si è fatta la fama di “canaglia” quando 3 anni fa dileggiò il presidente Ahmadinejad in un viaggio propagandistico e lo invitò pubblicamente ad un’intervista con l’incalzante appello “Talk to me, Mr. Ahmadinejad, if you dare to.”
Per resistere in Iran devi far tuo il detto “la miglior difesa è l’attacco”. E lei si difende con i modi che sa: un taccuino, un computer e tanta passione. “Pubblico tutto sul mio blog. Svelare le notizie mi aiuta a non tenere segreti. Se li avessi, i servizi segreti mi farebbero a pezzi. ”
Da quando il New Yorker ha richiamato l’attenzione dei lettori sulla sua vicenda, le visite sul suo diario telematico sono raddoppiate e il suo profilo su Facebook ha raggiunto il limite di amicizie.
Qualche giorno fa le ho scritto parole di stima accompagnate da un “Never give up” che lei spesso ripete per darsi forza. Per attenuare la vanità delle mie parole, le ho promesso di fare il possibile per far conoscere la sua storia. Oggi parte della promessa è mantenuta.
Il resto del patto lo considererò saldato solo quando Alinejad potrà raccontare un Iran diverso.
La sua attività è turbata continuamente dalle angherie dei sostenitori del regime e delle autorità. Interrogatori, auto distrutte e casa violata il giorno delle elezioni. In Iran, infatti, la conoscono bene: si è fatta la fama di “canaglia” quando 3 anni fa dileggiò il presidente Ahmadinejad in un viaggio propagandistico e lo invitò pubblicamente ad un’intervista con l’incalzante appello “Talk to me, Mr. Ahmadinejad, if you dare to.”
Per resistere in Iran devi far tuo il detto “la miglior difesa è l’attacco”. E lei si difende con i modi che sa: un taccuino, un computer e tanta passione. “Pubblico tutto sul mio blog. Svelare le notizie mi aiuta a non tenere segreti. Se li avessi, i servizi segreti mi farebbero a pezzi. ”
Da quando il New Yorker ha richiamato l’attenzione dei lettori sulla sua vicenda, le visite sul suo diario telematico sono raddoppiate e il suo profilo su Facebook ha raggiunto il limite di amicizie.
Qualche giorno fa le ho scritto parole di stima accompagnate da un “Never give up” che lei spesso ripete per darsi forza. Per attenuare la vanità delle mie parole, le ho promesso di fare il possibile per far conoscere la sua storia. Oggi parte della promessa è mantenuta.
Il resto del patto lo considererò saldato solo quando Alinejad potrà raccontare un Iran diverso.
martedì 11 agosto 2009
The Piper at the gates of dawn
La sera dopo il lungo viaggio. La pioggia fitta illuminata dai bagliori dei fulmini.
La radio regala la psichedelia di Syd Barrett: combinazioni acide di chitarre sferzanti, violente come vernice scagliata su tela e liriche ispirate a favole oniriche e sinestesie lisergiche.
I suoni si colorano di emozioni. L’arancione di “See Emily Play”, il verde smeraldo di “Arnold Layne”, l’oscurità spaziale di “Interstellar Overdrive”.
Jupiter and Saturn
Oberon Miranda and Titania
Neptune Titan
Stars can frighten...you
Lime and limpid green
a second scene,
A fight between the blue
you once knew.
Syd è consapevole del genio virulento e pericoloso che rischia di amputare il futuro del suo gruppo, i Pink Floyd. In “Jugband Blues” rivendica, peró, la sua luciditá in risposta a chi lo crede solo uno schizofrenico.
And I don't care if I'm nervous with you
I'll do my loving in the winter.
And the sea isn't green
And I love the queen
And what exactly is a dream
And what exactly is a joke.
Syd ci ha lasciati tre anni fa, dopo trent'anni passati in silenzio a fare il giardiniere nella sua villetta: aveva abbandonato i suoi compagni prima che esplorassero il lato oscuro della luna e varcassero il muro della celebrità. Un diamante pazzo che aveva smesso di brillare troppo presto per entrare nella memoria collettiva.
Stasera mi addormenterò sulle note del suonatore di cornamusa che mi condurrà alle porte della prossima alba.
La radio regala la psichedelia di Syd Barrett: combinazioni acide di chitarre sferzanti, violente come vernice scagliata su tela e liriche ispirate a favole oniriche e sinestesie lisergiche.
I suoni si colorano di emozioni. L’arancione di “See Emily Play”, il verde smeraldo di “Arnold Layne”, l’oscurità spaziale di “Interstellar Overdrive”.
Jupiter and Saturn
Oberon Miranda and Titania
Neptune Titan
Stars can frighten...you
Lime and limpid green
a second scene,
A fight between the blue
you once knew.
Syd è consapevole del genio virulento e pericoloso che rischia di amputare il futuro del suo gruppo, i Pink Floyd. In “Jugband Blues” rivendica, peró, la sua luciditá in risposta a chi lo crede solo uno schizofrenico.
And I don't care if I'm nervous with you
I'll do my loving in the winter.
And the sea isn't green
And I love the queen
And what exactly is a dream
And what exactly is a joke.
Syd ci ha lasciati tre anni fa, dopo trent'anni passati in silenzio a fare il giardiniere nella sua villetta: aveva abbandonato i suoi compagni prima che esplorassero il lato oscuro della luna e varcassero il muro della celebrità. Un diamante pazzo che aveva smesso di brillare troppo presto per entrare nella memoria collettiva.
Stasera mi addormenterò sulle note del suonatore di cornamusa che mi condurrà alle porte della prossima alba.
Un'eredità scomoda
Giuseppe Fava era un giornalista siciliano, assassinato da Cosa Nostra il 5 gennaio 1984.
La sua colpa non era di aver sedotto la donna di un boss, come il menzognero passaparola innescato dalle "famiglie" aveva lasciato credere, ma di aver accusato chiaramente i clan di truccare appalti e corrompere la pubblica amministrazione.
“I Siciliani”, un giornale libero, senza padroni e referenti, ha scavato nella coscienza omertosa della società creando i primi germogli di resistenza attiva contro la Mafia, tra gli anni ’70 e ’80.
A distanza di più di venticinque anni, il Tribunale di Palermo ordina al quotidiano, da tempo sciolto, di pagare le spettanze ai creditori, e pone sotto pignoramento il patrimonio dei giornalisti.
I figli decidono di saldare il debito di circa settantamila euro con lo Stato che ha dimostrato ingratitudine verso un eroe della resistenza siciliana.
Una scelta incomprensibile d'istinto, ma necessaria e degna. Per spiegarla mi sono affidato alle parole di Socrate nel Critone:
Pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?
La sua colpa non era di aver sedotto la donna di un boss, come il menzognero passaparola innescato dalle "famiglie" aveva lasciato credere, ma di aver accusato chiaramente i clan di truccare appalti e corrompere la pubblica amministrazione.
“I Siciliani”, un giornale libero, senza padroni e referenti, ha scavato nella coscienza omertosa della società creando i primi germogli di resistenza attiva contro la Mafia, tra gli anni ’70 e ’80.
A distanza di più di venticinque anni, il Tribunale di Palermo ordina al quotidiano, da tempo sciolto, di pagare le spettanze ai creditori, e pone sotto pignoramento il patrimonio dei giornalisti.
I figli decidono di saldare il debito di circa settantamila euro con lo Stato che ha dimostrato ingratitudine verso un eroe della resistenza siciliana.
Una scelta incomprensibile d'istinto, ma necessaria e degna. Per spiegarla mi sono affidato alle parole di Socrate nel Critone:
Pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?
Cronache dalla frontiera
La frontiera si è spostata più in là. Fino a sessant’anni fa il Danubio segnava il confine tra il mondo occidentale e le frattaglie sovietiche, di cui Bratislava era l’avamposto. Ora l’Europa capitalista ha attratto a sé la capitale slovacca: poco più di un’ora di treno da Vienna, fiumi di turisti, vita di tendenza.
Martin, trentenne slovacco, sociologo e collaboratore di una società di marketing, ci guida alla scoperta di uno dei simboli dell’Est rampante. Ci aspetta alla stazione di Petržalka, il sobborgo progettato dai sovietici sull’altra sponda del Danubio, dopo la seconda guerra mondiale. D’impatto Bratislava mi è cara. Mi riapproprio del gusto di aspettare per piú di quindici minuti i bus rattoppati, osservo i marciapiedi dissestati pensando al mio meridione distratto, mi affeziono agli abbinamenti architettonici dissonanti: le vecchie case da regime, schierate come un esercito di combattenti stanchi, pian piano scompaiono a favore di nuovi edifici slanciati progettati per ospitare giovani coppie. Qui c’è anche il gigantesco shopping mall dove ci tratteniamo a pranzo. “Centomila Euro per cinquanta metri quadri. Un appartamento costa più che a Vienna, i prezzi sono aumentati molto in pochi mesi, molti dei miei amici non sanno più se comprare una casa nuova” ci racconta Martin, mentre inforchetta l’halusky, gli gnocchi slovacchi. L’arrivo della moneta unica pochi mesi fa è stato accolto con grande speranza: “Pensa a quanti turisti in più potranno arrivare qui invece che a Vienna, grazie all’aeroporto. E il meglio deve ancora venire: nel 2012 l’Austria e la Germania apriranno le frontiere ai lavoratori slovacchi. Ci saranno grandi opportunità per noi”. Chissà cosa ne pensano i muratori nell’Alta Austria che temono di essere spazzati via dai lavoratori dell’Est. Sembra che solo loro, i nuovi arrivati delle ex repubbliche sovietiche, riescano a trovare i vantaggi dell’Unione a 27. Dentro il centro commerciale ci sono centinaia di persone: i bambini scorrazzano tra i giochi al centro del boulevard, i giovani affollano i negozi di telefonia, attratte dalle offerte stracciate, i patiti del fitness corrono sui tapis-roulant del cento benessere. Potrebbe essere Roma o una cittá in Carolina del Nord, invece è un ex baluardo comunista. A pochi passi dal centro commerciale, lungo la riva del Danubio, la T-Mobile ha insediato una spiaggia artificiale, un piccolo villaggio turistico con campi di calcetto e beach volley. Il drink e i Ray Ban sono d’ordinanza. Un martellante ritmo arriva da un battello: é la musica latino-americana che agita decine di belle ragazze. I turisti britannici le guardano con inspiegabile sufficienza, quasi con distacco. “Non farci caso – mi tranquillizza Martin – sono venuti qui per festeggiare l’addio al celibato dei loro amici. La notte, mentre gli italiani e gli spagnoli si danno da fare con le nostre ragazze, loro pensano solo ad ubriacarsi. Sono i vostri migliori alleati!”. E come dargli torto? Di notte la cittá si trasforma da meta turistica di massa in uno degli epicentri della movida europea. Le donne portano in giro i loro lustrini e aspettano civettuole i richiami dei ragazzi latini che affollano i bar e i locali del centro. Mentre gli alfieri britannici pensano a battere i record di velocitá e resistenza di ingestione di alcolici, spagnoli e italiani si contendono lo scettro di seduttori. Il risultato non ha importanza. Mai come in questi casi l’importante è partecipare.
Martin, trentenne slovacco, sociologo e collaboratore di una società di marketing, ci guida alla scoperta di uno dei simboli dell’Est rampante. Ci aspetta alla stazione di Petržalka, il sobborgo progettato dai sovietici sull’altra sponda del Danubio, dopo la seconda guerra mondiale. D’impatto Bratislava mi è cara. Mi riapproprio del gusto di aspettare per piú di quindici minuti i bus rattoppati, osservo i marciapiedi dissestati pensando al mio meridione distratto, mi affeziono agli abbinamenti architettonici dissonanti: le vecchie case da regime, schierate come un esercito di combattenti stanchi, pian piano scompaiono a favore di nuovi edifici slanciati progettati per ospitare giovani coppie. Qui c’è anche il gigantesco shopping mall dove ci tratteniamo a pranzo. “Centomila Euro per cinquanta metri quadri. Un appartamento costa più che a Vienna, i prezzi sono aumentati molto in pochi mesi, molti dei miei amici non sanno più se comprare una casa nuova” ci racconta Martin, mentre inforchetta l’halusky, gli gnocchi slovacchi. L’arrivo della moneta unica pochi mesi fa è stato accolto con grande speranza: “Pensa a quanti turisti in più potranno arrivare qui invece che a Vienna, grazie all’aeroporto. E il meglio deve ancora venire: nel 2012 l’Austria e la Germania apriranno le frontiere ai lavoratori slovacchi. Ci saranno grandi opportunità per noi”. Chissà cosa ne pensano i muratori nell’Alta Austria che temono di essere spazzati via dai lavoratori dell’Est. Sembra che solo loro, i nuovi arrivati delle ex repubbliche sovietiche, riescano a trovare i vantaggi dell’Unione a 27. Dentro il centro commerciale ci sono centinaia di persone: i bambini scorrazzano tra i giochi al centro del boulevard, i giovani affollano i negozi di telefonia, attratte dalle offerte stracciate, i patiti del fitness corrono sui tapis-roulant del cento benessere. Potrebbe essere Roma o una cittá in Carolina del Nord, invece è un ex baluardo comunista. A pochi passi dal centro commerciale, lungo la riva del Danubio, la T-Mobile ha insediato una spiaggia artificiale, un piccolo villaggio turistico con campi di calcetto e beach volley. Il drink e i Ray Ban sono d’ordinanza. Un martellante ritmo arriva da un battello: é la musica latino-americana che agita decine di belle ragazze. I turisti britannici le guardano con inspiegabile sufficienza, quasi con distacco. “Non farci caso – mi tranquillizza Martin – sono venuti qui per festeggiare l’addio al celibato dei loro amici. La notte, mentre gli italiani e gli spagnoli si danno da fare con le nostre ragazze, loro pensano solo ad ubriacarsi. Sono i vostri migliori alleati!”. E come dargli torto? Di notte la cittá si trasforma da meta turistica di massa in uno degli epicentri della movida europea. Le donne portano in giro i loro lustrini e aspettano civettuole i richiami dei ragazzi latini che affollano i bar e i locali del centro. Mentre gli alfieri britannici pensano a battere i record di velocitá e resistenza di ingestione di alcolici, spagnoli e italiani si contendono lo scettro di seduttori. Il risultato non ha importanza. Mai come in questi casi l’importante è partecipare.
Freakonomics, part 2
Dietro il profitto stellare di Goldman Sachs che aveva destato sorpresa e sospetto c’è (in parte) una giustificazione.
GS si è dotata di computer superveloci per precedere tutti gli altri investitori, istituzionali e non, e monetizzare le opportunitá di arbitraggio concesse dal mercato. D’accordo, sono spiccioli su ogni singola transazione, ma provate a moltiplicarli per i milioni di compravendite effettuate ogni giorno e otterrete grandi profitti (per GS) e smisurati costi sociali.
“Il grado di velocità è direttamente proporzionale all'intensità dell'oblio”
Milan Kundera, La Lentezza
GS si è dotata di computer superveloci per precedere tutti gli altri investitori, istituzionali e non, e monetizzare le opportunitá di arbitraggio concesse dal mercato. D’accordo, sono spiccioli su ogni singola transazione, ma provate a moltiplicarli per i milioni di compravendite effettuate ogni giorno e otterrete grandi profitti (per GS) e smisurati costi sociali.
“Il grado di velocità è direttamente proporzionale all'intensità dell'oblio”
Milan Kundera, La Lentezza
venerdì 7 agosto 2009
Il campione é figlio del suo tempo
Quarantatre record del mondo. Quarantatre! Non se n’erano mai visti cosí tanti in una stessa vasca durante un Mondiale.
Doping a gogó o progresso fisico e tecnico strabilianti? No, questione di poliuretano.
Il segreto sta nelle fibre dei costumi che hanno trasformato i nuotatori in palombari da piscina: forma aerodinamica, migliore galleggiamento, incremento della potenza.
Un voto quasi unanime delle federazioni nazionali ha peró bandito i costumi high-tech a partire dal 2010. Gli orologi della tecnologia in vasca ritorneranno indietro di circa dieci anni, prima dell’introduzione dei “costumoni” da sub, e i cronometri saranno di sicuro piú parchi di record.
Quando scienza e sport sono legati in modo cosí intricato, nascono domande sul ruolo della tecnologia applicata allo sport. Lasciare il merito della performance interamente allo sportivo o permettere l’“aiutino”? La storia non ammette dubbi: lo sviluppo dei materiali è stato sempre favorito.
Per restare al nuoto, Johnny Weissmuller, primatista dei 100 metri degli anni ’20, reso immortale dall’interpretazione di Tarzan, è stato surclassato da Mark Spitz, olimpionico munito dei ben piú performanti costumini floreali in lycra.
Lo sviluppo tecnologico é visibile in tutti gli altri sport.
I golfisti degli anni '20 “armati” di mazze di metallo non potrebbero competere con Tiger Woods equipaggiato con strumenti in titanio. E Jesse Owens avrebbe potuto fare faville con le scarpe di Carl Lewis, figurarsi con quelle di Usain Bolt…
Eppure nessuno pensa di imporre al talentuoso Tiger gli strumenti di 80 anni fa o al dirompente “Fulmine” giamaicano le calzature di tela degli anni ’30.
Siamo proprio sicuri che ostacolare ora la tecnologia sia un propellente per lo spettacolo e per l’autenticitá dello sport?
Sono anni che la Formula 1 cambia i regolamenti, non solo per rivoltare i rapporti di forza, ma anche per imbrigliare lo sviluppo galoppante delle prestazioni. Risultato? Ascolti e sorpassi in calo costante. Liti? Innumerevoli.
Dal 2000, per battere il leggendario record dell’ora bisogna una usare una bici su cui a mala pena Eddie Merckx sarebbe sarebbe salito per una gita nelle Fiandre. Se fino a 10 anni fa tutti i migliori ciclisti volevano battere quel primato con l’aiuto di velocipedi avveniristici, ora solo qualche atleta di retroguardia si cimenta nell’impresa, nell’indifferenza del pubblico.
La domanda, a questo punto, è se tale controrivoluzione verso il progresso tecnologico sia l’inizio di una crociata contro ogni forma di innovazione nello sport. La vicenda di Oscar Pistorius, campione di atletica e di tenacia, è il segno che i “farisei” stanno imponendo allo sport uno status di immobilità che l'agonismo, per definizione, non ha mai avuto. Lo sport è confronto dell’uomo con se stesso e con gli strumenti del suo sforzo. Il miglioramento non puó prescindere da nessuno dei due fattori.
Provate a chiedere al poeta del tennis Gianni Clerici se sia piú forte Federer o Lendl, Borg o Perry. Risponderà senza indugio che ognuno di loro è figlio del suo tempo.
I campioni non agiscono in un eterno presente. La bellezza dello sport risiede proprio nell’impossibilitá di confronti generazionali. Cosí ogni campione restera' il migliore della sua epoca e la sua gloria rimarrá intatta agli assalti dei successori nel libro dei record.
Doping a gogó o progresso fisico e tecnico strabilianti? No, questione di poliuretano.
Il segreto sta nelle fibre dei costumi che hanno trasformato i nuotatori in palombari da piscina: forma aerodinamica, migliore galleggiamento, incremento della potenza.
Un voto quasi unanime delle federazioni nazionali ha peró bandito i costumi high-tech a partire dal 2010. Gli orologi della tecnologia in vasca ritorneranno indietro di circa dieci anni, prima dell’introduzione dei “costumoni” da sub, e i cronometri saranno di sicuro piú parchi di record.
Quando scienza e sport sono legati in modo cosí intricato, nascono domande sul ruolo della tecnologia applicata allo sport. Lasciare il merito della performance interamente allo sportivo o permettere l’“aiutino”? La storia non ammette dubbi: lo sviluppo dei materiali è stato sempre favorito.
Per restare al nuoto, Johnny Weissmuller, primatista dei 100 metri degli anni ’20, reso immortale dall’interpretazione di Tarzan, è stato surclassato da Mark Spitz, olimpionico munito dei ben piú performanti costumini floreali in lycra.
Lo sviluppo tecnologico é visibile in tutti gli altri sport.
I golfisti degli anni '20 “armati” di mazze di metallo non potrebbero competere con Tiger Woods equipaggiato con strumenti in titanio. E Jesse Owens avrebbe potuto fare faville con le scarpe di Carl Lewis, figurarsi con quelle di Usain Bolt…
Eppure nessuno pensa di imporre al talentuoso Tiger gli strumenti di 80 anni fa o al dirompente “Fulmine” giamaicano le calzature di tela degli anni ’30.
Siamo proprio sicuri che ostacolare ora la tecnologia sia un propellente per lo spettacolo e per l’autenticitá dello sport?
Sono anni che la Formula 1 cambia i regolamenti, non solo per rivoltare i rapporti di forza, ma anche per imbrigliare lo sviluppo galoppante delle prestazioni. Risultato? Ascolti e sorpassi in calo costante. Liti? Innumerevoli.
Dal 2000, per battere il leggendario record dell’ora bisogna una usare una bici su cui a mala pena Eddie Merckx sarebbe sarebbe salito per una gita nelle Fiandre. Se fino a 10 anni fa tutti i migliori ciclisti volevano battere quel primato con l’aiuto di velocipedi avveniristici, ora solo qualche atleta di retroguardia si cimenta nell’impresa, nell’indifferenza del pubblico.
La domanda, a questo punto, è se tale controrivoluzione verso il progresso tecnologico sia l’inizio di una crociata contro ogni forma di innovazione nello sport. La vicenda di Oscar Pistorius, campione di atletica e di tenacia, è il segno che i “farisei” stanno imponendo allo sport uno status di immobilità che l'agonismo, per definizione, non ha mai avuto. Lo sport è confronto dell’uomo con se stesso e con gli strumenti del suo sforzo. Il miglioramento non puó prescindere da nessuno dei due fattori.
Provate a chiedere al poeta del tennis Gianni Clerici se sia piú forte Federer o Lendl, Borg o Perry. Risponderà senza indugio che ognuno di loro è figlio del suo tempo.
I campioni non agiscono in un eterno presente. La bellezza dello sport risiede proprio nell’impossibilitá di confronti generazionali. Cosí ogni campione restera' il migliore della sua epoca e la sua gloria rimarrá intatta agli assalti dei successori nel libro dei record.
lunedì 3 agosto 2009
Mein name ist…
Dopo tre settimane passate a bofonchiare “Ein apfel, bitte” ai fruttivendoli e annuire contrito alle parole incomprensibili dei passeggeri in metropolitana, ho deciso di iscrivermi ad un corso di tedesco.
In uno stanzino sperduto al settimo piano dell’edificio F va in scena una puntata di “Non è mai troppo tardi” in versione teutonica: di giovani disposti a sacrificare tre giorni alla settimana in agosto nemmeno l’ombra, in classe solo volenterosi cinquantenni in cerca di nuove emozioni con le valchirie di mezza età. Non c’è il maestro Manzi, ma la giovane professoressa Heike che, per rompere il ghiaccio, mi passa un leoncino di pezza chiedendomi “Wie ist dein name?”. Sul momento mi chiedo se invece di iscrivermi ad un corso di lingua mi sia inserito in un gruppo di recupero mentale, poi getto lo sguardo sul foglio di fronte a me con la risposta “Mein name ist…”. Il peggio deve ancora venire, però. La Prof. inizia a parlarmi in tedesco con un tono tra l’affettuoso e il compassionevole. Con quella voce potrebbe dire qualsiasi cosa, dalla coniugazione del verbo “Mussen” all’incipit delle “Affinità elettive” di Goethe. Mai potrei immaginare che quella sinfonia di gutturali e “scharfes S” significhi “Dai su, lancia il leoncino a uno dei tuoi compagni e chiedigli come si chiama”. Io lo cedo allo scozzese Paul per ringraziarlo del suggerimento sottobanco. Lui, orgoglioso della discreta confidenza con la lingua, in un men che non si dica si presenta in perfetto tedesco e scaglia il felino come un giavellotto dal lato opposto della sala sfiorando il volto di un supervisor indonesiano. Sull’orlo del conflitto diplomatico, interviene Heike che ci distoglie dalla sorte dell’animale posticcio e dei due contendenti scrivendo due parole sulla lavagna: “Nominativ” e “Dativ”. La mia memoria si accende, ripesca nel passato le nozioni del ginnasio e inizia a tempestarmi di suffissi e radici. Il “neutro”, che nella mia vita è ormai tornato ad essere un sapone, riappare improvvisamente accompagnandosi ad aggettivi e sostantivi.
Per domani sono preparato: ablativo assoluto e un passo del “De Senectute” di Seneca... O no?
In uno stanzino sperduto al settimo piano dell’edificio F va in scena una puntata di “Non è mai troppo tardi” in versione teutonica: di giovani disposti a sacrificare tre giorni alla settimana in agosto nemmeno l’ombra, in classe solo volenterosi cinquantenni in cerca di nuove emozioni con le valchirie di mezza età. Non c’è il maestro Manzi, ma la giovane professoressa Heike che, per rompere il ghiaccio, mi passa un leoncino di pezza chiedendomi “Wie ist dein name?”. Sul momento mi chiedo se invece di iscrivermi ad un corso di lingua mi sia inserito in un gruppo di recupero mentale, poi getto lo sguardo sul foglio di fronte a me con la risposta “Mein name ist…”. Il peggio deve ancora venire, però. La Prof. inizia a parlarmi in tedesco con un tono tra l’affettuoso e il compassionevole. Con quella voce potrebbe dire qualsiasi cosa, dalla coniugazione del verbo “Mussen” all’incipit delle “Affinità elettive” di Goethe. Mai potrei immaginare che quella sinfonia di gutturali e “scharfes S” significhi “Dai su, lancia il leoncino a uno dei tuoi compagni e chiedigli come si chiama”. Io lo cedo allo scozzese Paul per ringraziarlo del suggerimento sottobanco. Lui, orgoglioso della discreta confidenza con la lingua, in un men che non si dica si presenta in perfetto tedesco e scaglia il felino come un giavellotto dal lato opposto della sala sfiorando il volto di un supervisor indonesiano. Sull’orlo del conflitto diplomatico, interviene Heike che ci distoglie dalla sorte dell’animale posticcio e dei due contendenti scrivendo due parole sulla lavagna: “Nominativ” e “Dativ”. La mia memoria si accende, ripesca nel passato le nozioni del ginnasio e inizia a tempestarmi di suffissi e radici. Il “neutro”, che nella mia vita è ormai tornato ad essere un sapone, riappare improvvisamente accompagnandosi ad aggettivi e sostantivi.
Per domani sono preparato: ablativo assoluto e un passo del “De Senectute” di Seneca... O no?
(Non) e' un paese per vecchi
C’e’ qualcosa di piu’ senile di una gita in barca sul Danubio? Forse solo un pranzo moderatamente alcolico in una veranda di oleandri affacciata sul grande fiume. Bene, ieri non mi solo lasciato sfuggire ne’ l’uno ne’ l’altro.
La valle del Wachau, una lingua disegnata dal Danubio e ornata di vigneti lungo i pendii sembrava trendy quanto Saint Tropez, solo un po' piu' rurale: ragazzi assiepati sulle spiaggette sassose acclamavano i battelli, come tifosi sui tornanti dell’Alpe d’Huez e arditi banchieri guidavano nudi i loro motoscafi, con le immancabili bionde al fianco.
Mi chiedo dove siano finiti i vecchi. Sono confinati nella balera di Leopoldgasse negli stanchi pomeriggi d’agosto? O forse qui i giovani provano un irrefrenabile gusto per le degenerazioni senili?
E soprattutto, sto entrando definitivamente nello spirito del luogo o sto solamente invecchiando precocemente?
La valle del Wachau, una lingua disegnata dal Danubio e ornata di vigneti lungo i pendii sembrava trendy quanto Saint Tropez, solo un po' piu' rurale: ragazzi assiepati sulle spiaggette sassose acclamavano i battelli, come tifosi sui tornanti dell’Alpe d’Huez e arditi banchieri guidavano nudi i loro motoscafi, con le immancabili bionde al fianco.
Mi chiedo dove siano finiti i vecchi. Sono confinati nella balera di Leopoldgasse negli stanchi pomeriggi d’agosto? O forse qui i giovani provano un irrefrenabile gusto per le degenerazioni senili?
E soprattutto, sto entrando definitivamente nello spirito del luogo o sto solamente invecchiando precocemente?
venerdì 31 luglio 2009
Il Bianco e il Nero
«A Paterson questo è il modo in cui vanno le cose/se sei negro è meglio che non ti faccia nemmeno vedere per strada o ti incastrano», scriveva Bob Dylan nel ' 75 in Hurricane, la canzone di protesta dedicata al pugile nero Rubin «Hurricane» Carter, condannato ingiustamente per un triplice omicidio: 34 anni più tardi, nell'America di Barack Obama, la pelle nera continua ad essere un handicap.
Pochi giorni fa il celebre Professore nero di Harvard Henry Louis Gates prende a spallate la porta di casa sua, per via della serratura difettosa. Una donna insospettita chiama la Polizia e il poliziotto bianco James Crowley lo arresta. La storia si chiuderebbe qui come un fastidioso equivoco se non fosse per due aggettivi cromatici di troppo. Nero e bianco.
Questa vicenda a' la "Missisippi Burning" edulcorato mostra un’America ancora afflitta dalle ferite del suo passato razzista.
Nessuno dei protagonisti puo’ dirsi al riparo da critiche.
Sul poliziotto Crowley non aleggia solo l’accusa di non guardare la tv pubblica per le élite intellettuali PBS, di cui il Prof. Gates e’una conosciutissima star ma anche quella ben piu’ grave di aver usato le maniere forti sotto l’impulso del pregiudizio razziale. Se fosse stato un uomo bianco ad entrare in casa sua in maniera non ortodossa, probabilmente si sarebbe limitato ad un semplice controllo dei documenti.
Proprio questo il celebre studioso Gates ha rinfacciato all’agente fino a sbottare in un poco elegante «You don' t know who you’re messing with!» che ricorda l' italico «Lei non sa chi sono io». Caso emblematico di ragione tendente al torto.
E’ stato il presidente Obama, pero’, ad elevare una notizia di cronaca a caso mediatico tale da suscitare un dibattito pubblico. L’improperio rivolto al poliziotto (“Stupido”) ha destato scalpore per aver infranto i suoi garbati standard comunicativi innescando riflessioni su “discriminazione al contrario”, “inimicizia verso la middle class bianca” alla vigilia di dolorose riforme sociali e "discredito verso la polizia" che negli Stati Uniti gode di uno status di intoccabilita’.
Di storie sfondo razziale sono pieni libri e film americani, da Harry Callaghan, il bullo col distintivo della fortunata serie con Clint Eastwood al piedipiatti Gene Hackman in "Il braccio violento della legge", sino a "Los Angeles nera" di James Ellroy, il poliziotto che disprezza i neri.
L’America manichea che ama distinguere tra buon esempio ed errore biasimevole ha in realta’ un immaginario controverso e travagliato alle sue spalle. E la vicenda di Gates conferma che i meccanismi istintivi non sono ancora stati completamente disciplinati dalla riflessione.
Consapevoli di questo il Presidente, il Professore e il Poliziotto si sono ritrovati oggi per prendere una birra e cercare di dare un segnale: il popolo americano ha bisogno di vedere una linea di demarcazione netta tra Bene e Male, Bianco e Nero. Ma qui la razza non c’entra.
Pochi giorni fa il celebre Professore nero di Harvard Henry Louis Gates prende a spallate la porta di casa sua, per via della serratura difettosa. Una donna insospettita chiama la Polizia e il poliziotto bianco James Crowley lo arresta. La storia si chiuderebbe qui come un fastidioso equivoco se non fosse per due aggettivi cromatici di troppo. Nero e bianco.
Questa vicenda a' la "Missisippi Burning" edulcorato mostra un’America ancora afflitta dalle ferite del suo passato razzista.
Nessuno dei protagonisti puo’ dirsi al riparo da critiche.
Sul poliziotto Crowley non aleggia solo l’accusa di non guardare la tv pubblica per le élite intellettuali PBS, di cui il Prof. Gates e’una conosciutissima star ma anche quella ben piu’ grave di aver usato le maniere forti sotto l’impulso del pregiudizio razziale. Se fosse stato un uomo bianco ad entrare in casa sua in maniera non ortodossa, probabilmente si sarebbe limitato ad un semplice controllo dei documenti.
Proprio questo il celebre studioso Gates ha rinfacciato all’agente fino a sbottare in un poco elegante «You don' t know who you’re messing with!» che ricorda l' italico «Lei non sa chi sono io». Caso emblematico di ragione tendente al torto.
E’ stato il presidente Obama, pero’, ad elevare una notizia di cronaca a caso mediatico tale da suscitare un dibattito pubblico. L’improperio rivolto al poliziotto (“Stupido”) ha destato scalpore per aver infranto i suoi garbati standard comunicativi innescando riflessioni su “discriminazione al contrario”, “inimicizia verso la middle class bianca” alla vigilia di dolorose riforme sociali e "discredito verso la polizia" che negli Stati Uniti gode di uno status di intoccabilita’.
Di storie sfondo razziale sono pieni libri e film americani, da Harry Callaghan, il bullo col distintivo della fortunata serie con Clint Eastwood al piedipiatti Gene Hackman in "Il braccio violento della legge", sino a "Los Angeles nera" di James Ellroy, il poliziotto che disprezza i neri.
L’America manichea che ama distinguere tra buon esempio ed errore biasimevole ha in realta’ un immaginario controverso e travagliato alle sue spalle. E la vicenda di Gates conferma che i meccanismi istintivi non sono ancora stati completamente disciplinati dalla riflessione.
Consapevoli di questo il Presidente, il Professore e il Poliziotto si sono ritrovati oggi per prendere una birra e cercare di dare un segnale: il popolo americano ha bisogno di vedere una linea di demarcazione netta tra Bene e Male, Bianco e Nero. Ma qui la razza non c’entra.
giovedì 30 luglio 2009
Freakonomics
To make or to manage.
Ho scoperto perche’ il mio capo odia cosi’ tanto i meeting. Si chiama Frank Bartels, e' originario del Ghana e affermato accademico. Sette anni fa sceglie di entrare nelle UN, dove gli viene assegnato un incarico di responsabilità che lo costringe spesso a meeting fiume e riunioni plenarie.
Basta gettare un occhio sulla sua agenda in cuoio per intuire, tra scarabocchi, numeri obliqui e schemi pedestri, che le sue ore d’ufficio siano un continuo andirivieni dal suo ufficio. E mi stupisco di come possa conservare un’invidiabile cordialità, solo a tratti rotta da smorfie bonarie e versi che ricordano l’impatto di una pallina da tennis sulla racchetta.
Come racconta la rubrica Freakonomics sul NYTimes, ci sono due tipi di “time schedule”: quella del “manager”e quella del “maker”.
Il primo e’ l’uomo di potere, che dopo incarichi specialistici assurge ai piu’ alti livelli della gerarchia. Non ricorda nemmeno i rudimenti tecnici del mestiere perche’, passato a gestire persone, non ha piu’ bisogno di conoscere in dettaglio le aggregazioni di acidi o i tassi spot a tre mesi. Ha un altro lessico, fatto di “coinvolgimento”, “spirito di gruppo”, “incentivi”, “produttivita’”, “soddisfazione”. Il suo orario e’ nella tradizionale agenda, scandito da appuntamenti di un’ora. Un buco a pranzo viene subito riempito da una colazione di lavoro con un collega. Basta un appunto e via.
Il “maker” e’ lo scrittore, il creativo, il free-lance che ha bisogno di qualche ora per pensare l’idea e mezza giornata per realizzarla. E’ terrorizzato dall’idea che un meeting, o addirittura un caffe’ con un collega possa spaccargli la mattinata in due parti. Diventa frenetico. E improduttivo.
Lo tormenta il conflitto tra ragione, che gli impone di accettare un colloquio con i suoi colleghi, e istinto creativo, che lo ammonisce di non disperdere il suo tempo in incontri.
Mr. Bartels, come avrete capito, ha un animo da maker e una responsabilta’ da manager. Molte volte si trova a litigare con se stesso perche’ non sa quale delle sue identita’ far prevalere: riunione con quell’incompetente stagista italiano alle 2 o lettura del rapporto mensile dell’Economist Intelligence Unit?
Qualunque cosa scelga, si sentira’ in colpa. Nel primo caso rimpiangera’ di non aver dato al ragazzo la chance di dire la prima cosa intelligente in 3 settimane. Nel secondo caso, avra’ timore di non poter piu’ sapere la crescita del settore tessile in Nicaragua.
A pensarci bene, al conflitto di identita’ non e’ estraneo nemmeno un comune stagista. Ora mi libero dei panni di “maker” del blog e indosso quelli di “manager” di me stesso, cioe' mi metto a lavorare. Altrimenti cosa racconto a Mr Bartels alle 2?
Basta gettare un occhio sulla sua agenda in cuoio per intuire, tra scarabocchi, numeri obliqui e schemi pedestri, che le sue ore d’ufficio siano un continuo andirivieni dal suo ufficio. E mi stupisco di come possa conservare un’invidiabile cordialità, solo a tratti rotta da smorfie bonarie e versi che ricordano l’impatto di una pallina da tennis sulla racchetta.
Come racconta la rubrica Freakonomics sul NYTimes, ci sono due tipi di “time schedule”: quella del “manager”e quella del “maker”.
Il primo e’ l’uomo di potere, che dopo incarichi specialistici assurge ai piu’ alti livelli della gerarchia. Non ricorda nemmeno i rudimenti tecnici del mestiere perche’, passato a gestire persone, non ha piu’ bisogno di conoscere in dettaglio le aggregazioni di acidi o i tassi spot a tre mesi. Ha un altro lessico, fatto di “coinvolgimento”, “spirito di gruppo”, “incentivi”, “produttivita’”, “soddisfazione”. Il suo orario e’ nella tradizionale agenda, scandito da appuntamenti di un’ora. Un buco a pranzo viene subito riempito da una colazione di lavoro con un collega. Basta un appunto e via.
Il “maker” e’ lo scrittore, il creativo, il free-lance che ha bisogno di qualche ora per pensare l’idea e mezza giornata per realizzarla. E’ terrorizzato dall’idea che un meeting, o addirittura un caffe’ con un collega possa spaccargli la mattinata in due parti. Diventa frenetico. E improduttivo.
Lo tormenta il conflitto tra ragione, che gli impone di accettare un colloquio con i suoi colleghi, e istinto creativo, che lo ammonisce di non disperdere il suo tempo in incontri.
Mr. Bartels, come avrete capito, ha un animo da maker e una responsabilta’ da manager. Molte volte si trova a litigare con se stesso perche’ non sa quale delle sue identita’ far prevalere: riunione con quell’incompetente stagista italiano alle 2 o lettura del rapporto mensile dell’Economist Intelligence Unit?
Qualunque cosa scelga, si sentira’ in colpa. Nel primo caso rimpiangera’ di non aver dato al ragazzo la chance di dire la prima cosa intelligente in 3 settimane. Nel secondo caso, avra’ timore di non poter piu’ sapere la crescita del settore tessile in Nicaragua.
A pensarci bene, al conflitto di identita’ non e’ estraneo nemmeno un comune stagista. Ora mi libero dei panni di “maker” del blog e indosso quelli di “manager” di me stesso, cioe' mi metto a lavorare. Altrimenti cosa racconto a Mr Bartels alle 2?
mercoledì 29 luglio 2009
Palla a spicchi
Mr.Markus Bogner, chief di HR, per sua ammissione “ha preso piu’ ferri con le donne che con i tiri da tre”. E' lui il signore di 2 metri sulla cinquantina che resiste agli assalti del colesterolo con le discese coast-to-coast sul campo di basket.
Markus mi presenta i suoi compagni di squadra.
Ferenc fa di nome come il suo connazionale nonché mitico centravanti del Real Madrid anni ’50 Puskas, ma alla palla di cuoio bianca e nera ha preferito quella a spicchi. Fa il direttore di un’unità al 13° piano dell’edificio D. Scorazza per il campo con l’agilità del giovane Mike D’Antoni, cui somiglia in modo imbarazzante per via del” baffo western”. Duetta spesso con la figlia Judith, che dal padre ha ereditato la passione più del talento, e ogni tanto si incarica di placare l’animo collerico del giovane francese Mathieu, il più dotato di tecnica e agonismo.
Olaf, invece, se la prende se gli dai del “russo”. Ha gli occhi da lupo della steppa come molti figli di Madre Russia, la tempra dell’ufficiale dell’Armata Rossa e tiene i calzini bianchi alti fino a meta' gamba, come Belov alle Olimpiadi vinte dall’URSS. Eppure ha sempre rinnegato il Cremlino, anche quando da giovane cestista della Lituania era costretto a rappresentare la corazzata sovietica.
Le partite filano via veloci come le gambe dei miei compagni. Ci entusiasmiamo per i tiri dalla distanza, lottiamo sui palloni vaganti con la voracita' dei professionisti. Il sudore ci rende ebbri di vitalita'.
Ho dimenticato le difficolta' del calcio. A mio favore gioca l'eta' ma per fiato e canestri a segno loro sono decisamente superiori.
Per il resto siamo alla pari: se sbagli il tiro libero, che tu sia Senior Chief o stagista alla terza settimanama, il “fanculo” gratuito non te lo nega nessuno.
Markus mi presenta i suoi compagni di squadra.
Ferenc fa di nome come il suo connazionale nonché mitico centravanti del Real Madrid anni ’50 Puskas, ma alla palla di cuoio bianca e nera ha preferito quella a spicchi. Fa il direttore di un’unità al 13° piano dell’edificio D. Scorazza per il campo con l’agilità del giovane Mike D’Antoni, cui somiglia in modo imbarazzante per via del” baffo western”. Duetta spesso con la figlia Judith, che dal padre ha ereditato la passione più del talento, e ogni tanto si incarica di placare l’animo collerico del giovane francese Mathieu, il più dotato di tecnica e agonismo.
Olaf, invece, se la prende se gli dai del “russo”. Ha gli occhi da lupo della steppa come molti figli di Madre Russia, la tempra dell’ufficiale dell’Armata Rossa e tiene i calzini bianchi alti fino a meta' gamba, come Belov alle Olimpiadi vinte dall’URSS. Eppure ha sempre rinnegato il Cremlino, anche quando da giovane cestista della Lituania era costretto a rappresentare la corazzata sovietica.
Le partite filano via veloci come le gambe dei miei compagni. Ci entusiasmiamo per i tiri dalla distanza, lottiamo sui palloni vaganti con la voracita' dei professionisti. Il sudore ci rende ebbri di vitalita'.
Ho dimenticato le difficolta' del calcio. A mio favore gioca l'eta' ma per fiato e canestri a segno loro sono decisamente superiori.
Per il resto siamo alla pari: se sbagli il tiro libero, che tu sia Senior Chief o stagista alla terza settimanama, il “fanculo” gratuito non te lo nega nessuno.
lunedì 27 luglio 2009
La coscienza di Auro
E’ finito il Tour. “Vive le Tour!” si dirà al termine di un’edizione ravvivata dal circo mediatico attorno a Lance Armstrong e dallo strapotere atletico e tattico di Alberto Contador.
Per noi Italiani è stata una corsa in tono minore, non tanto per i risultati dei nostri, quanto per il commento bolso e stantio dell’inetto Auro. Il Bulbarelli è lo stereotipo dell’ignavo, dall’abbigliamento impiegatizio e dal sapere pedissequo. Perfetta iconografia dello Zeno di Svevo.
Il Bulbarellismo, come l’ha definito Aldo Grasso, e’ il concetto dell’inettitudine che trascende il corpo e il nome. E’ un “topos” che trova una declinazione appropriata in ogni sfaccettatura dell’umanità: Bulbarelli lo incarna nel giornalismo sportivo, Marzullo nell'intervista, Gasparri nella politica e cosi' via.
Il comune carattere e’ l’ “horror vacui” intellettuale che restituiscono allo spettatore.
Auro, il cui nome non sfigurerebbe per un omogeneizzato o un ghiacciolo, ha rispettato tutte le tappe di avvicinamento al suo karma: figlio di un collaboratore del Giro d’Italia, sin da giovane mostra interesse per la cultura “triviale” (nel senso di “comune” e di “fintamente enciclopedico, tipico del campione di Trivial Pursuit”) ed esordisce in tv nel grigio anonimato di un quiz televisivo condotto da Mike Bongiorno. Da lì inizia inesorabile l’ascesa (o se volete, declino) con le stanche telecronache notturne del deprimente biliardo (non me ne vogliano gli amanti delle 15 palle) che lo proiettano verso il ciclismo.
Con Davide Cassani ha reinventato il concetto di coppia grottesca come Lemmon e Matthau hanno riscritto i canoni di quella comica: leggendari sono la definizione di “lavagnaio” affibbiata al motociclista che espone la lavagna del vantaggio, l’accurata analisi di maltodestrine ed ematocrito, i soliloqui didascalici sui vini del Borgognone.
Il ciclismo eroico ha il suggello dell'incipit del radiocronista Mario Ferretti: «Un uomo solo è al comando, la sua maglia biancoazzurra, il suo nome Fausto Coppi».
Quello del boom economico ha la narrazione acuta del “Processo alla tappa” di Sergio Zavoli.
La deriva dello sport a pedali arriva con il “Tenta la figa … pardon la fuga” del pur bravo mestierante De Zan, che solo Bulbarelli (chi altrimenti!) ha saputo superare descrivendo i "tratti semantici”, e non somatici, di un corridore in maglia gialla.
Per noi Italiani è stata una corsa in tono minore, non tanto per i risultati dei nostri, quanto per il commento bolso e stantio dell’inetto Auro. Il Bulbarelli è lo stereotipo dell’ignavo, dall’abbigliamento impiegatizio e dal sapere pedissequo. Perfetta iconografia dello Zeno di Svevo.
Il Bulbarellismo, come l’ha definito Aldo Grasso, e’ il concetto dell’inettitudine che trascende il corpo e il nome. E’ un “topos” che trova una declinazione appropriata in ogni sfaccettatura dell’umanità: Bulbarelli lo incarna nel giornalismo sportivo, Marzullo nell'intervista, Gasparri nella politica e cosi' via.
Il comune carattere e’ l’ “horror vacui” intellettuale che restituiscono allo spettatore.
Auro, il cui nome non sfigurerebbe per un omogeneizzato o un ghiacciolo, ha rispettato tutte le tappe di avvicinamento al suo karma: figlio di un collaboratore del Giro d’Italia, sin da giovane mostra interesse per la cultura “triviale” (nel senso di “comune” e di “fintamente enciclopedico, tipico del campione di Trivial Pursuit”) ed esordisce in tv nel grigio anonimato di un quiz televisivo condotto da Mike Bongiorno. Da lì inizia inesorabile l’ascesa (o se volete, declino) con le stanche telecronache notturne del deprimente biliardo (non me ne vogliano gli amanti delle 15 palle) che lo proiettano verso il ciclismo.
Con Davide Cassani ha reinventato il concetto di coppia grottesca come Lemmon e Matthau hanno riscritto i canoni di quella comica: leggendari sono la definizione di “lavagnaio” affibbiata al motociclista che espone la lavagna del vantaggio, l’accurata analisi di maltodestrine ed ematocrito, i soliloqui didascalici sui vini del Borgognone.
Il ciclismo eroico ha il suggello dell'incipit del radiocronista Mario Ferretti: «Un uomo solo è al comando, la sua maglia biancoazzurra, il suo nome Fausto Coppi».
Quello del boom economico ha la narrazione acuta del “Processo alla tappa” di Sergio Zavoli.
La deriva dello sport a pedali arriva con il “Tenta la figa … pardon la fuga” del pur bravo mestierante De Zan, che solo Bulbarelli (chi altrimenti!) ha saputo superare descrivendo i "tratti semantici”, e non somatici, di un corridore in maglia gialla.
domenica 26 luglio 2009
Il sano catastrofismo

Credo che George Marschack, in un articolo del ’45 citato dall’Economist della scorsa settimana, abbia colto lo struggimento dei macroeconomisti.
“La sismologia fa progressi attraverso strumenti più avanzati, teorie più precise e più frequenti rilevazioni di terremoti. Sono i terremoti a fare gran parte del lavoro dei sismologi.
I macroeconomisti, invece, sono privati dei terremoti per interi quarti di secolo”.
sabato 25 luglio 2009
Affama la bestia, quando è in vacanza
Sarà per l’aria disimpegnata, sarà perché molti sono in vacanza, la prima buona notizia è che non se ne parla. In Italia le riforme utili vanno quasi tenute al coperto, negli antri più impenetrabili delle Commissioni parlamentari e dei Ministeri.
Ieri il Ministro Gelmini ha annunciato un provvedimento apparentemente secondario che potrebbe aprire una fase nuova dell’università italiana: allocare il 7% del fondo ordinario di finanziamento delle università, cioè 525 milioni di euro, in base alla qualità della ricerca (per due terzi) e della didattica (un terzo). D’accordo, sono spiccioli, ma è l’intenzione quella che conta, cioè incentivare le università a gestire meglio le risorse.
Una “riforma” di tagli come quella dello scorso ottobre si è man mano arricchita di sfaccettature interessanti come la nuova norma del concorso che impone il sorteggio delle commissioni esaminatrici per evitare inciuci, fino a questo primo accenno di incentivo.
Intendiamoci, non è con queste norme marginali che si cambia l’università italiana. I problemi sono enormi e gravosi per le tasche di tutti: altissimi costi per studente (più alti di Francia e Gran Bretagna), 80% dei fondi destinati a retribuzioni dei docenti (in base all’anzianità, per lo più) e una valanga di debiti per finanziare spese correnti che minano la sopravvivenza di molti atenei.
Ben più desolante è però l’incapacità dell’università di proporsi come timone della società, assecondandone, anzi, le iniquità. Il 24% degli studenti universitari proviene dal 20% più ricco delle famiglie; solo l' 8% proviene dal 20% più povero. Nel Sud la disparità è ancora più ampia: 28% contro 4%. Le professioni di oggi ricalcano l’impronta nepotistica delle corporazioni medievali: il 44% degli architetti è figlio di architetti, il 42% di avvocati e notai è figlio di avvocati e notai, e lo stesso per ingegneri, farmacisti e medici. Siamo sicuri che l’università non abbia nulla da rimproverarsi ?
Negli ultimi 40 anni l’Università non è stata “affamata”. Anzi, le è stato concesso uno status di intoccabilità in cui hanno proliferato cupole di baronati e direttòri di sindacati. Quel che ci ritroviamo oggi è un parcheggio di cervelli in atrofia, costoso e molto autoreferenziale che per giunta plagia molti studenti con lo slogan “più risorse, più qualità”.
Aspettiamoci un altro provvedimento a Ferragosto, quando il riottoso popolo dell’Onda sarà nel posto che più gli compete. Al mare.
Ieri il Ministro Gelmini ha annunciato un provvedimento apparentemente secondario che potrebbe aprire una fase nuova dell’università italiana: allocare il 7% del fondo ordinario di finanziamento delle università, cioè 525 milioni di euro, in base alla qualità della ricerca (per due terzi) e della didattica (un terzo). D’accordo, sono spiccioli, ma è l’intenzione quella che conta, cioè incentivare le università a gestire meglio le risorse.
Una “riforma” di tagli come quella dello scorso ottobre si è man mano arricchita di sfaccettature interessanti come la nuova norma del concorso che impone il sorteggio delle commissioni esaminatrici per evitare inciuci, fino a questo primo accenno di incentivo.
Intendiamoci, non è con queste norme marginali che si cambia l’università italiana. I problemi sono enormi e gravosi per le tasche di tutti: altissimi costi per studente (più alti di Francia e Gran Bretagna), 80% dei fondi destinati a retribuzioni dei docenti (in base all’anzianità, per lo più) e una valanga di debiti per finanziare spese correnti che minano la sopravvivenza di molti atenei.
Ben più desolante è però l’incapacità dell’università di proporsi come timone della società, assecondandone, anzi, le iniquità. Il 24% degli studenti universitari proviene dal 20% più ricco delle famiglie; solo l' 8% proviene dal 20% più povero. Nel Sud la disparità è ancora più ampia: 28% contro 4%. Le professioni di oggi ricalcano l’impronta nepotistica delle corporazioni medievali: il 44% degli architetti è figlio di architetti, il 42% di avvocati e notai è figlio di avvocati e notai, e lo stesso per ingegneri, farmacisti e medici. Siamo sicuri che l’università non abbia nulla da rimproverarsi ?
Negli ultimi 40 anni l’Università non è stata “affamata”. Anzi, le è stato concesso uno status di intoccabilità in cui hanno proliferato cupole di baronati e direttòri di sindacati. Quel che ci ritroviamo oggi è un parcheggio di cervelli in atrofia, costoso e molto autoreferenziale che per giunta plagia molti studenti con lo slogan “più risorse, più qualità”.
Aspettiamoci un altro provvedimento a Ferragosto, quando il riottoso popolo dell’Onda sarà nel posto che più gli compete. Al mare.
venerdì 24 luglio 2009
Lunch-swimming

“Ehy Friedrich. Do you usually swim in the rivers?”
Avete un’idea per la pausa pranzo? A sentire il mio amico austriaco non c’e’ nulla di più divertente che fare un tuffo nel Danubio.
Cinque amici da varie parti d’Europa, uno zainetto ciascuno, un panino trangugiato in fretta, e via verso la riva!
Johann, lo svedese, non e’ troppo entusiasta dell’idea: lui sui fiumi ci corre veloce coi pattini d’inverno. Jorge, lo spagnolo, pur non sapendo se l’acqua sia dolce o salata, si avventura in pronostici azzardati sulla sua temperatura. Il francese e l’italiano, invece, finiscono ben presto per parlare delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, cioe’ di Zidane e Materazzi.
Arriviamo sulla sponda, un piccolo giardino di gigli ci accoglie. Scopro che in molti hanno avuto la stessa idea di Friedrich. Qui il bagno nel fiume e’ un rituale di mezza estate, un po’ la nostra gita fuoriporta a Pasquetta, ma senza le bizzarrie climatiche primaverili.
Il nordico, fedele alla fama di “diligente” porta con sé un vestito di ricambio, mentre il francese si avvolge alla vita un verecondo asciugamano per indossare il costumino modello “Saint Tropez”. Dell’italiano assalito dai dubbi "dimensionali" di Alvaro Vitali al cospetto dello spagnolo e’ meglio non parlare …
Ci tuffiamo.
L’acqua dolce ti accarezza la schiena con una sadica e gelida lentezza, ti presenta i suoi inquilini, i banchi di pesci, qualche cigno particolarmente confidente negli uomini e un cagnolino al seguito di una madama cinquantenne.
Il fiume ti restituisce un senso di appartenenza alla natura che hai perso dopo aver abbandonato il ventre di tua mamma. Ti regala una liquida piacevolezza che pensi possa durare per sempre.
“Guys! We got the meeting with Mr. Bartels at 2! ”
In pochi secondi gli scalmanati “viveur” tornano diligenti stagisti, giusto il tempo di indossare alla bene e meglio un paio di calzini mordicchiato dal barboncino e riattaccare il tesserino sulla camicia.
Metamorfosi quasi completata se non per qualche umido alone sospetto sui pantaloni che il caldo Fohn provvederà ad asciugare.
LottizzeRAI
Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato la lettera inedita del’64 di Indro Montanelli a Pietro Nenni, segretario del PSI, sulle nomine RAI.
Il decano dei giornalisti italiani elencava senza giri di parole i papabili al ruolo di Presidente della RAI e stroncava molti altri, inclusi esimi studiosi del rango di Carlo Bo. A suo dire, un presidente amante delle raffinate letture, di scarso polso, e spocchiosamente distaccato da uno strumento nuovo e innovativo come la TV (se l’avesse letto Pasolini …) avrebbero impedito alla RAI dell’epoca, in gran parte sotto l’abbraccio narcotizzante della DC, di essere guida vitale di una società in crescita. Molto meglio sarebbe stato affidarla ad un manager dal minore fervore intellettuale ma con maggiore capacità organizzativa.
La lettera di Montanelli mi ha fatto venire in mente 2 ovvietà e una leggenda.
Prima ovvieta'. La storia della RAI lottizzata inizia ben prima di quanto Di Pietro denunci. Se nel 1964 il giornalista di punta del Corriere interpellava il capo di un partito con il 13% dei voti , allora c’erano almeno altri due partiti (PCI e DC) che insieme al socialista si sarebbero divisi le poltrone della TV. E’ un caso che le reti RAI siano diventate 3 nel giro di 15 anni?
Seconda ovvieta'. Se i partiti hanno iniziato a distribuire i posti in RAI in base alle tessere fin dagli albori, allora capiamo come la TV di stato sia arrivata a contare ben 13 mila dipendenti (compresi quelli a tempo determinato) nel 2005. Contro i 6.500 dipendenti di Mediaset, la metà. Ma senza avere il doppio degli ascolti e del fatturato rispetto alla concorrenza.
La leggenda. L' ultimo re d' Egitto si chiamava Faruk. Era un reuccio da nulla dedito soltanto alla bella vita. Amava soprattutto il gioco. E al gioco, il poker, voleva sempre vincere, in questo modo: aspettava di vedere le carte degli altri, e poi lui dichiarava una mano superiore senza farla vedere. «Parola di re», diceva. Gli altri giocatori si sottomettevano; dopotutto lui era un re, e loro erano lusingati di essere ammessi al suo tavolo.
Berlusconi definisce una «doppia menzogna» sostenere che in Italia lui monopolizza stampa e tv. Perché, asserisce, la stampa scritta è «all' 85 per cento di sinistra contro i moderati», e le reti Rai «sono molto libere e il 75 per cento dei giornalisti è di sinistra». Ma qui Berlusconi commette l' errore di scoprire una carta (su cinque). Se ci dà delle percentuali (la carta che scopre) allora quelle percentuali le deve comprovare.
Ma l’Italia è un Paese in cui non si guarda nel mazzo del re, e tutti sono disposti a perdere pur di ottenerne i favori.
Per quanto potremo andare avanti prendendo tutto per buono, «parola di re»? Probabilmente fin quando non avremo una seria legge di riassetto delle TV. Quella sul conflitto di interesse non serve a nulla se continua a consentire ad un solo personaggio di avere di fatto il controllo della tv di stato e ai partiti la certezza di piazzare i non eletti e i loro amici di sezioni negli uffici di Viale Mazzini.
Tempo fa Giovanni Sartori lanciò una proposta che provocò lo stesso scalpore di un singhiozzo in un Maracanà gremito in ogni ordine di posto.
Un servizio pubblico blindato da invasioni politiche come la Bbc inglese, che lascia interamente la pubblicità alla televisione commerciale, che a sua volta paga le sue concessioni trasferendo alla tv pubblica metà dei suoi profitti pubblicitari. Oppure una TV di stato sul modello francese, sottratta alla pappatoia dei partiti da una autorità amministrativa indipendente, il Conseil Supérieur de l' Audiovisuel e di proprietà dei privati con quote bassissime.
Il motivo per cui queste proposte caddero nel silenzio è lo stesso per cui, nel ’64, come Presidente della RAI non fu scelto né un manager proposto da Montanelli né un intellettuale caro all’intellighenzia, bensì Pietro Quaroni, diplomatico e uomo fidato dei partiti.
Finché sono loro a comandare in RAI, il re avrà vita facile a poker.
Il decano dei giornalisti italiani elencava senza giri di parole i papabili al ruolo di Presidente della RAI e stroncava molti altri, inclusi esimi studiosi del rango di Carlo Bo. A suo dire, un presidente amante delle raffinate letture, di scarso polso, e spocchiosamente distaccato da uno strumento nuovo e innovativo come la TV (se l’avesse letto Pasolini …) avrebbero impedito alla RAI dell’epoca, in gran parte sotto l’abbraccio narcotizzante della DC, di essere guida vitale di una società in crescita. Molto meglio sarebbe stato affidarla ad un manager dal minore fervore intellettuale ma con maggiore capacità organizzativa.
La lettera di Montanelli mi ha fatto venire in mente 2 ovvietà e una leggenda.
Prima ovvieta'. La storia della RAI lottizzata inizia ben prima di quanto Di Pietro denunci. Se nel 1964 il giornalista di punta del Corriere interpellava il capo di un partito con il 13% dei voti , allora c’erano almeno altri due partiti (PCI e DC) che insieme al socialista si sarebbero divisi le poltrone della TV. E’ un caso che le reti RAI siano diventate 3 nel giro di 15 anni?
Seconda ovvieta'. Se i partiti hanno iniziato a distribuire i posti in RAI in base alle tessere fin dagli albori, allora capiamo come la TV di stato sia arrivata a contare ben 13 mila dipendenti (compresi quelli a tempo determinato) nel 2005. Contro i 6.500 dipendenti di Mediaset, la metà. Ma senza avere il doppio degli ascolti e del fatturato rispetto alla concorrenza.
La leggenda. L' ultimo re d' Egitto si chiamava Faruk. Era un reuccio da nulla dedito soltanto alla bella vita. Amava soprattutto il gioco. E al gioco, il poker, voleva sempre vincere, in questo modo: aspettava di vedere le carte degli altri, e poi lui dichiarava una mano superiore senza farla vedere. «Parola di re», diceva. Gli altri giocatori si sottomettevano; dopotutto lui era un re, e loro erano lusingati di essere ammessi al suo tavolo.
Berlusconi definisce una «doppia menzogna» sostenere che in Italia lui monopolizza stampa e tv. Perché, asserisce, la stampa scritta è «all' 85 per cento di sinistra contro i moderati», e le reti Rai «sono molto libere e il 75 per cento dei giornalisti è di sinistra». Ma qui Berlusconi commette l' errore di scoprire una carta (su cinque). Se ci dà delle percentuali (la carta che scopre) allora quelle percentuali le deve comprovare.
Ma l’Italia è un Paese in cui non si guarda nel mazzo del re, e tutti sono disposti a perdere pur di ottenerne i favori.
Per quanto potremo andare avanti prendendo tutto per buono, «parola di re»? Probabilmente fin quando non avremo una seria legge di riassetto delle TV. Quella sul conflitto di interesse non serve a nulla se continua a consentire ad un solo personaggio di avere di fatto il controllo della tv di stato e ai partiti la certezza di piazzare i non eletti e i loro amici di sezioni negli uffici di Viale Mazzini.
Tempo fa Giovanni Sartori lanciò una proposta che provocò lo stesso scalpore di un singhiozzo in un Maracanà gremito in ogni ordine di posto.
Un servizio pubblico blindato da invasioni politiche come la Bbc inglese, che lascia interamente la pubblicità alla televisione commerciale, che a sua volta paga le sue concessioni trasferendo alla tv pubblica metà dei suoi profitti pubblicitari. Oppure una TV di stato sul modello francese, sottratta alla pappatoia dei partiti da una autorità amministrativa indipendente, il Conseil Supérieur de l' Audiovisuel e di proprietà dei privati con quote bassissime.
Il motivo per cui queste proposte caddero nel silenzio è lo stesso per cui, nel ’64, come Presidente della RAI non fu scelto né un manager proposto da Montanelli né un intellettuale caro all’intellighenzia, bensì Pietro Quaroni, diplomatico e uomo fidato dei partiti.
Finché sono loro a comandare in RAI, il re avrà vita facile a poker.
mercoledì 22 luglio 2009
L'alcol, Letizia e la sindrome del Divin Codino
Comincio a sospettare che la Moratti passerà alla storia per l’ordinanza sull’alcol più che per l’Expo. Un po’ come Roberto Baggio resterà nella memoria per il rigore sbagliato a Pasadena che per il Pallone d’Oro.
La Letizia di Milano oggi si crogiolava ascoltando da un Red Ronnie più fulvo che mai i lusinghieri sondaggi pubblicati dalle maggiori testate nazionali. Compresa la tanto bistrattata e antigovernativa “Repubblica”.
Mettiamo le cose in chiaro. Il problema della diffusione degli alcolici tra i giovani è reale. Se non ci credete fate un giro su internet e troverete un rapporto Istat 2009 che descrive dettagliatamente l’aumento di consumo di alcol tra gli adolescenti.
Il problema è capire quale sia lo scopo dell’ordinanza.
Suscitare un dibattito sull’uso di alcol tra i giovani, come dicono alcuni?
Se bisogna discutere su come allontanare un ragazzino dal bicchiere facile, l'ordinanza del sindaco ha meno poteri del dialogo quotidiano dei genitori con il figlio alticcio.
Fissare dei principi generali, regole di convivenza civile?
Contro questa idea si schierano quelli del “se si proibisce, si incentiva la trasgressione”. È un aspetto che esiste ma non mi pare che là fuori sia pieno di ragazzi che guidano la macchina a sedici anni e senza patente per il gusto della trasgressione. E inoltre mettere delle regole precise ma trasgredibili non è un buona giustificazione per non averne. Piuttosto, proprio perché le norme siano generali, facciamo una legge che vieti il consumo a tutti gli under sedici, non solo ai giovani milanesi.
Intraprendere la politica del pugno di ferro?
In Gran Bretagna, il divieto di vendere alcolici ai minorenni esiste davvero, nel senso che ogni cassiera del supermercato si prende la briga di chiedere i documenti all'imberbe anche a Natale, con Ms Smith in fila che sbotta per tornare a casa a fare l'albero.
Non possiamo obiettare più di tanto che al di là della Manica il divieto di vendita non equivalga a quello di consumo, e il limite sia superiore di due anni rispetto all’Italia. Finiremmo per descrivere i comportamenti degli adolescenti in maniera deterministica. E invece i dati statistici evidenziano che nel Regno Unito, a parità di regole, il numero di giovani bevitori e la morte per abuso di alcol è aumentata dal '91 a oggi. La relazione “regola più severa implica riduzione del comportamento dannoso” non regge.
E’ in atto un cambiamento nei costumi degli adolescenti a cui la risposta mediante la sola legge non può che fare il solletico. Anzi, far scoppiare dalle risate, se si parla di alcol.
In definitiva, siamo d’accordo che questa ordinanza sia utile come l’ultimo giro di walzer sul Titanic ma non confondiamola con una regola totalmente insensata.
Piuttosto, come si farà rispettare la legge?
Magari pattuglie di vigili urbani si apposteranno davanti ai locali come di fronte ai luoghi del malaffare colombiani e qualche celerino travestito da rastone si metterà a offrire del fumo con una mano e a chiedere i documenti con l’altra.
O forse ci sarà una di migrazione di emo e punkabbestia verso Cinisello Balsamo e Cernusco sul Naviglio (mica Barcellona!) per qualche settimana, giusto il tempo che Studio Aperto apra con il caso del giovane frikkettone multato con il whisky in mano.
Poi tutto tornerà come prima. Avremo archiviato il dibattito pubblico senza aver mutato il comportamento dei giovani alcolisti.
Intanto però la Moratti, quando sarà rieletta, ci penserà a quell'ordinanza e stapperà una bottiglia di champagne.
Tanto lei i sedici anni gli ha passati da un pezzo.
La Letizia di Milano oggi si crogiolava ascoltando da un Red Ronnie più fulvo che mai i lusinghieri sondaggi pubblicati dalle maggiori testate nazionali. Compresa la tanto bistrattata e antigovernativa “Repubblica”.
Mettiamo le cose in chiaro. Il problema della diffusione degli alcolici tra i giovani è reale. Se non ci credete fate un giro su internet e troverete un rapporto Istat 2009 che descrive dettagliatamente l’aumento di consumo di alcol tra gli adolescenti.
Il problema è capire quale sia lo scopo dell’ordinanza.
Suscitare un dibattito sull’uso di alcol tra i giovani, come dicono alcuni?
Se bisogna discutere su come allontanare un ragazzino dal bicchiere facile, l'ordinanza del sindaco ha meno poteri del dialogo quotidiano dei genitori con il figlio alticcio.
Fissare dei principi generali, regole di convivenza civile?
Contro questa idea si schierano quelli del “se si proibisce, si incentiva la trasgressione”. È un aspetto che esiste ma non mi pare che là fuori sia pieno di ragazzi che guidano la macchina a sedici anni e senza patente per il gusto della trasgressione. E inoltre mettere delle regole precise ma trasgredibili non è un buona giustificazione per non averne. Piuttosto, proprio perché le norme siano generali, facciamo una legge che vieti il consumo a tutti gli under sedici, non solo ai giovani milanesi.
Intraprendere la politica del pugno di ferro?
In Gran Bretagna, il divieto di vendere alcolici ai minorenni esiste davvero, nel senso che ogni cassiera del supermercato si prende la briga di chiedere i documenti all'imberbe anche a Natale, con Ms Smith in fila che sbotta per tornare a casa a fare l'albero.
Non possiamo obiettare più di tanto che al di là della Manica il divieto di vendita non equivalga a quello di consumo, e il limite sia superiore di due anni rispetto all’Italia. Finiremmo per descrivere i comportamenti degli adolescenti in maniera deterministica. E invece i dati statistici evidenziano che nel Regno Unito, a parità di regole, il numero di giovani bevitori e la morte per abuso di alcol è aumentata dal '91 a oggi. La relazione “regola più severa implica riduzione del comportamento dannoso” non regge.
E’ in atto un cambiamento nei costumi degli adolescenti a cui la risposta mediante la sola legge non può che fare il solletico. Anzi, far scoppiare dalle risate, se si parla di alcol.
In definitiva, siamo d’accordo che questa ordinanza sia utile come l’ultimo giro di walzer sul Titanic ma non confondiamola con una regola totalmente insensata.
Piuttosto, come si farà rispettare la legge?
Magari pattuglie di vigili urbani si apposteranno davanti ai locali come di fronte ai luoghi del malaffare colombiani e qualche celerino travestito da rastone si metterà a offrire del fumo con una mano e a chiedere i documenti con l’altra.
O forse ci sarà una di migrazione di emo e punkabbestia verso Cinisello Balsamo e Cernusco sul Naviglio (mica Barcellona!) per qualche settimana, giusto il tempo che Studio Aperto apra con il caso del giovane frikkettone multato con il whisky in mano.
Poi tutto tornerà come prima. Avremo archiviato il dibattito pubblico senza aver mutato il comportamento dei giovani alcolisti.
Intanto però la Moratti, quando sarà rieletta, ci penserà a quell'ordinanza e stapperà una bottiglia di champagne.
Tanto lei i sedici anni gli ha passati da un pezzo.
Aridatece la Bicamerale!
In fondo ad ogni credenza c'è una verità. In fondo ad ogni salotto c'è una credenza. Questo dimostra inconfutabilmente che i salotti esistono. Ma non che le credenze siano verità.
Dopo la leggenda sull’intelligenza politica di D’Alema sta crollando anche il mito del tempismo mediatico di Berlusconi.
La battuta del “santo” era geniale due mesi fa, appena dopo il caso Noemi, perché avrebbe colto alla sprovvista tutti i detrattori e probabilmente disinnescato la campagna mediatica di “Repubblica”.
Ora invece suona come un’ammissione di fatto della sua “allegria sessuale” che per giunta coprirà la notizia, ben più importante, dell’inizio del cantiere Brebemi.
Aridatece la Bicamerale!
Almeno a quei tempi pensavamo ancora che uno fosse intelligente e l’altro scaltro.
Dopo la leggenda sull’intelligenza politica di D’Alema sta crollando anche il mito del tempismo mediatico di Berlusconi.
La battuta del “santo” era geniale due mesi fa, appena dopo il caso Noemi, perché avrebbe colto alla sprovvista tutti i detrattori e probabilmente disinnescato la campagna mediatica di “Repubblica”.
Ora invece suona come un’ammissione di fatto della sua “allegria sessuale” che per giunta coprirà la notizia, ben più importante, dell’inizio del cantiere Brebemi.
Aridatece la Bicamerale!
Almeno a quei tempi pensavamo ancora che uno fosse intelligente e l’altro scaltro.
martedì 21 luglio 2009
Waterloo
La scorsa settimana, il senatore Repubblicano Jim DeMint ha chiarito i motivi per cui gli avversari della riforma del sistema sanitario stanno lottando così duramente.
"If we're able to stop Obama on this, it will be his Waterloo. It will break him."
Ecco la risposta di Obama.
"Think about that. This isn't about me. This isn't about politics. This is about a health care system that is breaking America's families, breaking America's businesses and breaking America's economy. And we can't afford the politics of delay and defeat when it comes to health care. Not this time, not now. There are too many lives and livelihoods at stake."
"If we're able to stop Obama on this, it will be his Waterloo. It will break him."
Ecco la risposta di Obama.
"Think about that. This isn't about me. This isn't about politics. This is about a health care system that is breaking America's families, breaking America's businesses and breaking America's economy. And we can't afford the politics of delay and defeat when it comes to health care. Not this time, not now. There are too many lives and livelihoods at stake."
lunedì 20 luglio 2009
Come la mettiamo con Jude?
Si sono scomodati luminari della medicina legale e dell’informatica per stabilire con certezza che l’arzillo 67enne McCartney sia ancora vivo. Ma non sono riusciti a far quadrare le dimensioni del cranio e le arcate dentarie del Macca vivente con quello ipoteticamente defunto nel 1966.
Boh, forse Paul è ricorso troppo spesso alle cure del dentista e del chirurgo plastico per farsi limare qualche cartilagine qua e là ed è diventato irriconoscibile pure per gli scienziati capaci di smascherare il mostro di Firenze e l’attentatore del Papa …
… Ah no? Anche quelli sono rimasti casi irrisolti? …
Ragazzi, non serve che vi inventiate uno scanner 5D per l’analisi craniometrica o un analizzatore di ponti mandibolari. Basta sentire qualche canzone del "fu" Paul per capire se un sosia qualsiasi potesse realizzare certi capolavori …
Boh, forse Paul è ricorso troppo spesso alle cure del dentista e del chirurgo plastico per farsi limare qualche cartilagine qua e là ed è diventato irriconoscibile pure per gli scienziati capaci di smascherare il mostro di Firenze e l’attentatore del Papa …
… Ah no? Anche quelli sono rimasti casi irrisolti? …
Ragazzi, non serve che vi inventiate uno scanner 5D per l’analisi craniometrica o un analizzatore di ponti mandibolari. Basta sentire qualche canzone del "fu" Paul per capire se un sosia qualsiasi potesse realizzare certi capolavori …
Non c'è più religione
Sapere di Bruno Vespa, sacerdote della medietas giornalistica, condannato per diffamazione, fa lo stesso effetto di Giovanardi indagato per spaccio o della Binetti accusata di induzione alla prostituzione.
Tears of Cronkite, the man on the Moon
A cavallo del fine settimana l’America ha avuto per ben due volte l’occasione di voltarsi indietro a contemplare il passato: la celebrazione del mitico “Moon landing” che squassò quarant’anni fa anche le notti di noi italiani al grido di “Ha toccato! Noo, non ha toccato! Ora sì che ha toccato!” e la morte del novantunenne anchorman Walter Cronkite, volto storico della CBS, che se n’è andato nell’anniversario dell’evento raccontato da cronista di punta.
Per l’occasione ho visto un documentario di Ron Howard, “In the Shadow of the Moon”, la cronaca enfatica di “un’epica impresa”, tra testimonianze dei protagonisti e filmati spettacolari al limite del fotomontaggio da studio: dallo storico discorso di Kennedy al Congresso alla sigla delle cronache da Cape Kennedy (ironia della storia), preceduta dallo spot Kellogg’s. Culmine ideale e abisso commerciale di un evento che ha alimentato esaltazione di tanti e scetticismo di alcuni.
Intanto rendiamo onore a Cronkite, a cui il presidente Johnson diede la palma del “più influente personaggio d’America” e speriamo che prima di arrivare lassù, faccia una piccola sosta sul nostro satellite.
Per l’occasione ho visto un documentario di Ron Howard, “In the Shadow of the Moon”, la cronaca enfatica di “un’epica impresa”, tra testimonianze dei protagonisti e filmati spettacolari al limite del fotomontaggio da studio: dallo storico discorso di Kennedy al Congresso alla sigla delle cronache da Cape Kennedy (ironia della storia), preceduta dallo spot Kellogg’s. Culmine ideale e abisso commerciale di un evento che ha alimentato esaltazione di tanti e scetticismo di alcuni.
Intanto rendiamo onore a Cronkite, a cui il presidente Johnson diede la palma del “più influente personaggio d’America” e speriamo che prima di arrivare lassù, faccia una piccola sosta sul nostro satellite.
Il giardino delle impressioni
A queste latitudini ogni bambino inizia a familiarizzare molto presto con l’idea di giardino: i suoi antenati hanno scelto un nome degno dei racconti di Lewis Carroll, Kindergarten, il “giardino dei fanciulli”, per designare la scuola dell’infanzia.
Di domenica i tram del centro viaggiano al minimo carico e le serrande dei negozi sono tutte abbassate in pieno stile sciopero generale. L’Augarten, una mezza dozzina di verde in città con alberi potati in modo così accurato da sembrare frontespizi di palazzi, accoglie tutta la cittadinanza in cerca di relax e si trasforma per l’occasione nella fiera del libro e nel festival della bossanova.
Frotte di persone stanno sdraiate sull’erba come se davanti a loro ci fosse, al posto del ciottolato dove corrono i podisti, la battigia di Rimini, con tanto di sdraio e pappagalli a tampinare le ragazze scese dal freddo Nord.
Solo che in questo caso non ci sono i virgulti mediterranei in posa bensì biondoni un po’ macilenti che si dilettano con le bocce e il badminton, sport degni della casa del popolo di Modigliana.
Ma alle donne va bene anche così. Si accontentano di sbirciare di tanto in tanto qualche pettorale metalmeccanico tra le pagine dell’immancabile libro di Nick Hornby.
In queste giornate si realizzano miracoli altrimenti impossibili come rimanere illesi alle sassate scagliate da quei quattro scalmanati che giocano sempre a ridosso degli instancabili patiti dell’abbronzatura.
Trascorri il tempo a chiederti come mai appena il sole scompare tra le nuvole si alza una brezza tagliente che spariglia gli steli ma lascia impassibili i tuoi vicini. Per non destare sospetti sulla tua origine resti a petto nudo per stimolare l’ultima dose di melatonina della giornata.
Alle sette della sera non c’è più storia. Il sole comincia ad eclissarsi dietro il torrione a guardia del popolo del “fuoriporta” . Gli uccelli che vi si erano dati appuntamento come ad un aperitivo (qui il termine happy hour è una licenza per nostalgici in infradito …) iniziano a regalare evoluzioni simili a quelle di pattuglie acrobatiche.
Tutti smobilitano i loro mini-accampamenti e si muovono con ordine verso la città. A terra non un c’è traccia della loro permanenza, se non qualche gentile cadeau offerto ai pennuti come ricompensa dello spettacolo.
Di domenica i tram del centro viaggiano al minimo carico e le serrande dei negozi sono tutte abbassate in pieno stile sciopero generale. L’Augarten, una mezza dozzina di verde in città con alberi potati in modo così accurato da sembrare frontespizi di palazzi, accoglie tutta la cittadinanza in cerca di relax e si trasforma per l’occasione nella fiera del libro e nel festival della bossanova.
Frotte di persone stanno sdraiate sull’erba come se davanti a loro ci fosse, al posto del ciottolato dove corrono i podisti, la battigia di Rimini, con tanto di sdraio e pappagalli a tampinare le ragazze scese dal freddo Nord.
Solo che in questo caso non ci sono i virgulti mediterranei in posa bensì biondoni un po’ macilenti che si dilettano con le bocce e il badminton, sport degni della casa del popolo di Modigliana.
Ma alle donne va bene anche così. Si accontentano di sbirciare di tanto in tanto qualche pettorale metalmeccanico tra le pagine dell’immancabile libro di Nick Hornby.
In queste giornate si realizzano miracoli altrimenti impossibili come rimanere illesi alle sassate scagliate da quei quattro scalmanati che giocano sempre a ridosso degli instancabili patiti dell’abbronzatura.
Trascorri il tempo a chiederti come mai appena il sole scompare tra le nuvole si alza una brezza tagliente che spariglia gli steli ma lascia impassibili i tuoi vicini. Per non destare sospetti sulla tua origine resti a petto nudo per stimolare l’ultima dose di melatonina della giornata.
Alle sette della sera non c’è più storia. Il sole comincia ad eclissarsi dietro il torrione a guardia del popolo del “fuoriporta” . Gli uccelli che vi si erano dati appuntamento come ad un aperitivo (qui il termine happy hour è una licenza per nostalgici in infradito …) iniziano a regalare evoluzioni simili a quelle di pattuglie acrobatiche.
Tutti smobilitano i loro mini-accampamenti e si muovono con ordine verso la città. A terra non un c’è traccia della loro permanenza, se non qualche gentile cadeau offerto ai pennuti come ricompensa dello spettacolo.
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